Traduzione dell'originale sito in:
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In linea dal 19 marzo 2011.
Ultima modifica: 20 marzo 2011
Venerdì 11 marzo 2011
Consolazione o sfida - II di III
Concordo che il Sangha e i politici ricoprono
ruoli piuttosto diversi. Sin dall'inizio è stato essenziale per
il buddhismo che il Sangha e i laici avessero ruoli
complementari. Quelli che prendono sul serio il messaggio del
Buddha devono
rinunciare al mondo, abbandonare sia i pesi che i piaceri della vita
laica, e dedicarsi ai princìpi buddhisti. È il ruolo del
Sangha mantenere vivo il messaggio del Buddha, il che vuol dire
preservarne i valori e i princìpi etici. I membri del Sangha sono
autorità morali, o non sono nulla. Molte faccende, dall'economia
alla sessuologia, devono lasciare ai laici. Dai monaci e dalle
monache non ci si aspetta che si
gettino nella mischia dell'arena politica più di quanto ci si aspetta
che abbiano armi e che combattano. Ma vi dico che è loro
dovere dare consiglio ai leader politici sui principi morali che devono
guidare il modo in cui governano, e persino il modo in cui devono fare
la guerra, se non è possibile evitarla. Perché
dovrebbero i princìpi buddhisti, quelli che vanno sotto questo
nome, essere tenuti fuori dal governo e dalla politica? Il
buddhismo non è una qualche specie di gioco frivolo o un passatempo: è
qui presente per essere messo in pratica in ogni aspetto della vita.
Crimini quali la tortura e l'assassinio non sono faccende
politiche, ma sono temi fondamentali di moralità. Chiunque volga
lo sguardo da un'altra parte con la scusa che i torturatori e gli
assassini
sono potenti che governano al di sopra di noi non meritano di essere
chiamati buddhisti, ma neanche membri di una qualsiasi religione.
Naturalmente quelli che ricoprono ruoli di rilievo in istituzioni
pubbliche a volte si ritrovano in situazioni scomode quando lo stato fa
qualcosa di platealmente sbagliato; ma certamente questo è il prezzo
che devono pagare per la loro posizione di rilievo. Alla fine
della guerra delle Falkland, l'Arcivescovo di Canterbury presiedette
una funzione nella Cattedrale di St. Paul. E guidò la
congregazione in preghiera per i caduti di entrambi gli schieramenti,
non solamente per i britannici vittoriosi. E si sapeva che la
Sig.a Thatcher era arrabbiata per questo, ma questa è la
differenza tra un mero politico e un leader religioso: l'Arcivescovo
stava solo adempiendo al suo dovere in ossequio ai valori
cristiani. Essendo la Gran Bretagna una democrazia, non correva
personalmente un grosso rischio. I capi della chiesa in
Germania e in Italia sotto Hitler e Mussolini si trovavano in una
posizione molto
più difficile. È cosa nota che il papa dell'epoca,
Pio XII, non si comportò bene, mentre alcuni membri del
clero cristiano, sia cattolici che protestanti, trovarono il coraggio e
la sincerità di
protestare e persino di diventare martiri, a loro gloria eterna. (Per
quanto non sia cristiano, tale terminologia cristiana è certamente
appropriata in questo caso.)
Se una persona, che sia un monaco, una monaca o un laico dell'uno o
dell'altro
sesso, decide di abbandonare la società e di condurre una vita di
reclusione, non gli si può chiedere che si esprima sulla conduzione
della pubblica amministrazione –
e le sue dichiarazioni sarebbero in ogni caso ascoltate da ben poche
persone. Ma se hanno volontariamente assunto ruoli di
responsabilità nelle istituzioni religiose come il Sangha, devono
sicuramente farsi carico di ricoprire quegl'incarichi con sensibilità
morale, e non solo per dare accondiscendenza silenziosa a qualsiasi
atrocità perpetrata di fronte ai loro occhi.
Se i leader del Sangha theravada non riescono nemmeno ad alzare un dito
per aiutare né ad elevare una voce di
protesta contro il maltrattamento dei loro fratelli negli altri paesi,
credo che questo abbia a che fare non solo con la codardia e
l'indifferenza morale, ma anche con il nazionalismo. Risulta
che nel mondo moderno la maggior parte della gente prova un legame più
stretto con quelli della sua stessa nazionalità piuttosto che con
quelli della sua stessa religione. Se i miei prossimi due esempi
riguardano il buddhismo singalese, vi prego di comprendere che faccio
così non perché voglia criticare esclusivamente i singalesi, ma solo
perché li conosco meglio.
Ecco il mio primo esempio. Il primo vihara [monastero, NdT], wat,
o checché lo si voglia chiamare, buddhista theravada
è stato inaugurato a Londra nel 1926 dal riformatore Buddhista
singalese Anagarika Dharmapala come una diramazione della Maha Bodhi Society. Ad oggi
quel monastero, ora chiamato il London
Buddhist
Vihāra, è sotto il controllo di fiduciari che sono
membri della famiglia di Dharmapala e che vivono nello Sri Lanka.
Questo vuol dire che il Vihara non può essere registrato come
un'istituto di beneficenza in
Gran Bretagna, il che a sua volta vuol dire che va incontro a delle
gravi difficoltà finanziarie. La maggior parte dei suoi
sostenitori sono singalesi e la maggior parte della sue attività sono
rivolte a loro. Non molto tempo fa avevo ricevuto un invito da
Colombo perché diventassi la guida del ramo laico della Maha Bodhi
Society britannica con l'incarico di darle nuova vita, ma quando
ho scoperto che tutte le decisioni di rilievo, inclusa la nomina del
responsabile del monastero (che
è sempre singalese), sarebbero rimaste prerogativa esclusiva del
comitato di Colombo, mi sono reso conto che la cosa non poteva
approdare da
nessuna parte. Come alcuni di voi sanno, la Mahā Bodhi
Society, dominata dai singalesi, tiene altrettanto strettamente
in suo
pugno i suoi possedimenti in India.
Questa non è una faccenda tremendamente seria:
confronto alla mancata denuncia dell'assassinio di monaci, infatti, è
banale. Ma avendo questa conferenza intenzione di discutere il
problema della
disseminazione del buddhismo theravada nel resto del mondo, mi appare
di
riguardevole rilevanza.
Per rimanere sullo stesso tema, pensate alla storia delle missioni
buddhiste singalesi dell'ultimo secolo. Lo Sri Lanka si fa vanto
di essere l'Isola del buddhismo, il Dhammadipa, e quindi di essere una
base adeguata dalla quale si possa portare il buddhismo nel
mondo.
Ci vive anche, però, una ragguardevole minoranza di tamil non
buddhisti; e guarda caso è collocata appena al largo della costa del
Tamilnadu. Nonostante questo c'è stato un numero penosamente
esiguo di tentativi, dall'indipendenza in poi, di portare il buddhismo
almeno ai tamil dello Sri Lanka, figuriamoci a quelli del continente
indiano, perché le missioni verso l'occidente hanno un'attrattiva molto
più clamorosa. Quanti tamil sono stati ordinati nel Sangha dal
1947? Credo che nessuno sappia rispondere con precisione a questa
domanda, ma che tutti sarebbero d'accordo che non siano più di una
manciata.
Ripeto che non è mia intenzione parlare solamente dei singalesi quando
critico qualcuno. Storie simili possono essere riferite a
proposito degli altri popoli buddhisti, e non solo theravada. Ma
quali conclusioni ne avrebbe tratto il Buddha? Vale la pena
fare una
pausa per un momento per confrontare il buddhismo con il cristianesimo
e con l'islam in proposito. Naturalmente gli stati-nazione e le
tremende emozioni che fanno sorgere fanno parte del mondo moderno, e il
nazionalismo spunta fuori in
religioni che predicano ferventemente la fraternità degli uomini.
Ma complessivamente i leader religiosi cristiani e musulmani, e persino
i loro seguaci quando il contesto è la religione, non mancano di
rispetto o di cooperazione con i propri correligionari per questioni di
nazionalità.
Tornando a noi: perché così poche persone nel mondo trovano il
buddhismo theravada degno di seria considerazione? Beh, l'umanità
ha due grossi problemi morali: permettetemi di etichettarli sesso e
violenza. Parlerò adesso a sua volta di ciascuno; e siccome ho
già preso in considerazione l'assassinio e il
nazionalismo, dirò prima alcune altre cose sulla violenza.
Il buddhismo si
proclama la religione della non-violenza, ahimsa. È quindi
perfettamente naturale che la gente chieda conto di come questo
si traduce nei fatti. È mia esperienza personale che chiedono se
la storia recente dello Sri Lanka,
del Myanmar, della Thailandia, del Laos e della Kampuchea [Cambogia], i
cinque paesi theravada, dimostri in proposito un trascorso migliore
confronto a quello degli altri paesi. La risposta, come sappiamo
bene tutti, è disarmante. Lo Sri Lanka ha di recente portato a
termine una guerra civile che è durata più di 25 anni, una
generazione intera, e il nuovo governo sta dando prova di atteggiamenti
autoritari allarmanti. Nel Myanmar il governo centrale, privo di
qualsiasi
legittimità democratica, ha combattuto le minoranze etniche per un
periodo ancora più lungo e milioni di persone sono fuggite dal
paese.
La Thailandia ha naturalmente un trascorso molto migliore, ma anche qui
ci sono stati gravi conflitti sociali, a volte violenti, per buona
parte degli ultimi due anni; nel maggio scorso [2010, NdT] delle
persone che si erano rifugiate in un monastero al centro di Bangkok
sono state uccise da quelle che alcuni hanno chiamato le forze della
legge e dell'ordine; l'ultimo colpo di stato militare ha avuto luogo
solo quattro anni fa; l'estremo sud del paese non trova pace; e si è
fatto sfoggio di belligeranza per una contesa di confine con un vicino
theravāda, la Kampuchea. Il Laos (di cui so poco) non è stato
proprio pacifico, mentre la povera
Kampuchea sotto Pol Pot ha sofferto una cosa simile all'autogenocidio.
Fatemi aggiungere subito che questa lista è, lo so, molto
inesatta. In alcuni
casi non sono la popolazione o il governo buddhista da dover essere
principalmente oggetto di denuncia per le violenze. Tutto quello
che voglio dire è che, stando così le cose, sfortunatamente non è
possibile che quelli che vogliono persuadere gli altri che il buddhismo
theravāda sia primo nel mondo nella nonviolenza possano
dimostrare che la teoria sia minimamente sostenuta dai fatti.
Questo divario tra la teoria e la pratica è particolarmente stridente
quando si va ad analizzare l'applicazione della legge, con particolar
riguardo alla pena di morte. Mentre si deve essere estremamente
cauti
nel biasimare qualcosa o qualcuno per il trascorso generale politico di
cui ho appena stilato un profilo, in questo caso non vale lo stesso
discorso. Che ruolo ricopre il buddhismo, che professa la
nonviolenza e l'amore per tutti, nella vita pubblica? Non c'è
bisogno di guardare al di la del primo precetto:
non togliere la vita. Più della metà dei paesi nel mondo hanno
abolito la pena capitale, il che vuol dire che lo stato non toglie la
vita. Eppure nella lista di quelli che non contemplano la pena
capitale compaiono
solamente due nazioni buddhiste, il Bhutan e la Kampuchea. Questo
nonostante il fatto che siano stati condotti numerosi studi per
determinare se la pena capitale diminuisca l'incidenza del crimine
agendo da deterrente, e che tutti abbiano
concluso che così non è. E allora non c'è neanche una ragione
pragmatica per mantenere la pena capitale: c'è solo per soddisfare il
desiderio di vendetta.
La pena capitale di solito è applicata in conseguenza di un crimine
terribile quale l'omicidio, e tali crimini sono certamente
odiosi. Proprio per questa ragione trattare quei criminali
umanamente mette veramente alla prova la nostra sincerità riguardo i
nostri princìpi sull'amore e la nonviolenza. Naturalmente,
dovesse qualcuno uccidere una persona che mi sia vicina, sarebbe troppo
aspettarsi che io possa amare quell'assassino. Questa è la
ragione per cui abbiamo un sistema giuridico, piuttosto che permettere
che ciascuno possa farsi giustizia da se. Ma fossi un buddhista
sincero, come potrei chiedere allo stato di uccidere in mio nome?
Da cui segue un'ulteriore considerazione. Il buddhismo dice che
chiunque abbia commesso un'azione malvagia dovrà soffrire di
conseguenza: questa è la legge del karma e della retribuzione.
Credessimo sinceramente in questo insegnamento buddhista fondamentale,
come potremmo giustificare la moltiplicazione della violenza facendo in
modo che anche il giudice e il boia commettano assassini?
Non ingannatevi: lo stato che applica la pena di morte sta in questa
misura corrompendo i suoi cittadini e va contro gl'insegnamenti del
Buddha. Stavo presenziando ad un'enorme conferenza
internazionale sul Vesak qui a Bangkok quando ad una sessione
di pannello un norvegese ha proposto dalla platea che la pena di morte
fosse dichiarata
incompatibile con i princìpi buddhisti e che debba quindi essere
abolita. Sono rimasto scioccato dalla risposta disinvolta del
pannello: che questa era una domanda difficile da risolvere, perché
molta gente in Thailandia è a favore della pena di morte. E
allora il compito del Sangha qual'è, di fare da guida sui temi etici, o
di seguire la folla?
Di nuovo, non ho l'intenzione di puntare il dito contro un solo
paese.
Dopo tutto il norvegese aveva parlato contro la pena di morte di fronte
a membri del
Sangha di tutti i paesi theravada, e nessuno di loro ha detto una
parola in suo favore. E così, tanti saluti alla religione della
compassione universale.
Inviato da Shravasti Dhammika alle 11:06
pomeridiane
Fine parte II
I diritti d'autore sono detenuti dall'Autore dell'originale.
I diritti della traduzione in italiano sono del traduttore.
La traduzione italiana è coperta, ove compatibile con la licenza dell'originale,
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