Sono veramente grato al
Ven. Sugandho per avermi fatto l'onore d'invitarmi a dare questo
discorso di indirizzo dei lavori. Spero sinceramente di non fare
in
modo che debba pentirsi di questa sua cortesia.
Alcuni anni fa due sociologi americani della religione, Glock e Stark,
hanno scritto un libro sulla
cristianità e l'America contemporanea che è stato molto ben accolto e
l'hanno chiamato
“Consolare o sfidare”. Per poter vendere agli altri la loro
religione
le chiese cristiane negli Stati Uniti hanno dovuto concentrarsi su
quello che la gente voleva dalla religione e decidersi fino a che
punto erano disposti a darglielo. Quello che la gente vuole di
più è la consolazione. La vita è dura, il mondo
appare spesso ingiusto e la morte è una
prospettiva terrificante, a meno di non essere convinti che sia la
porta verso qualcosa di meglio della vita sulla terra. Così
come i bambini credono che i loro genitori abbiano la facoltà
di dargli quello che vogliono e di spazzare via le loro angosce, la
gente vuole credere, e per questo è molto facilmente persuasa, che
l'universo funzioni allo stesso modo: che ci sia qualcuno che comanda,
che fondamentalmente bada a noi e fa in modo che alla fine tutto si
sistemi.
Tutte le religioni del mondo tranne il buddhismo offrono
una tale visione consolatoria, e anche alcune delle principali forme
di buddhismo, come la Jodo Shinshu (Buddhismo della Terra Pura), lo
fanno. Le religioni differiscono su quanta buona condotta il
Grande
Genitore del Cielo richiede in cambio del conforto e della
consolazione che può elargire. (Dico “lui” perché il
Grande Genitore è pensato più frequentemente come un
padre che come una madre; ma io intendo un genitore tanto dell'uno
come dell'altro sesso.) In alcune religioni tutto quello che si chiede
ai bambini – all'umanità cioè – è che ripongano la
loro fiducia nel Grande Genitore e che si rivolgano a lui per ricevere
aiuto; al solo riconoscere la sua onnipotenza è pronto a
perdonarli per qualsiasi cosa. In altre religioni, se i bambini
fanno i
cattivi, il Genitore cerca di far si che siano puniti, prima di
mostrarsi mosso a pietà. In tali casi la punizione peggiore è
spesso riservata a quelli che non credono nel Grande Genitore e per
questo non meritano di beneficiare della sua bontà.
Le istituzioni religiose, quindi, si occupano principalmente di
confortare e consolare e il loro personale considera
quest'attività il loro primo dovere. Ma se pensiamo ai fondatori
delle
religioni e ai grandi riformatori, [vediamo] che hanno soprattutto
sentito il bisogno di proporre una sfida al loro pubblico, di criticare
lo status quo e di sollecitare la gente perché migliorasse la propria
esistenza e quella di chi gli stava intorno. Gesù, ad esempio,
predicava il perdono, ma sapeva essere spietato contro il peccato; e
il Sermone della Montagna dimostra quanto fosse contrario ai valori da
cui è governato il mondo, e promise che in futuro “gli ultimi saranno
i primi e i primi saranno ultimi”. Per gran parte di noi questo
non è
un
messaggio che ci fa comodo, e non era stato pensato per esserlo.
Le religioni hanno quindi di fronte il problema che in gran misura la
ragione per cui esistono è in stridente contrasto con quello che la
maggior parte della gente si aspetta da loro. I loro fondatori e
la
maggior parte dei loro santi avevano il fuoco dentro: volevano che la
gente si risvegliasse e che diventasse cosciente di quanto era
diventata
sufficiente e autocompiacente, quanto indifferente al male e pigra sul
fare il bene, che dal punto di vista morale la maggior parte di loro
era diventata completamente insensibile, diventando poco più di
bufali addormentati in una pozza di fango.
Farsi latore di un tale messaggio è spesso pericoloso. Nella
maggior
parte dei paesi e dei periodi storici quelli che si
mettono a castigare chi detiene il potere hanno corso il rischio di
essere puniti in modo grave, persino di essere messi a morte. I
loro
seguaci li chiamano quindi martiri, “testimoni” della verità. Mi
considero
fortunato del fatto che per quanto a voi, il mio pubblico, quello che
sto per dire oggi debba piacere o no, è improbabile che io
sia martirizzato. Da parte mia è necessario quindi solo un po' di
coraggio per dirvi quelle che ai miei occhi sono verità
sgradevoli. E per quanto possa risultarvi offensivo, credo che mi
riconoscerete per lo meno il merito d'esser stato sincero, perché parlo
con convinzione appassionata. All'inizio del mio libro di recente
pubblicazione “Che cosa ha insegnato il Buddha” ho scritto che
secondo me le idee del Buddha “dovrebbero far parte dell'istruzione
di tutti i bambini, in tutto il mondo, e che questo contribuirebbe a
rendere il mondo un luogo più civilizzato, più gentile e
più intelligente.” E io sono, aggiungo dopo, costantemente
inorridito
dal fallimento delle istituzioni buddhiste nel comprendere il
messaggio del Buddha, nell'insegnarlo e nel viverlo in pratica.
Questo
fallimento, questo fallimento tragico e colpevole, deve
determinare l'agenda di questa conferenza da lungo attesa.
Nel suo scritto a elucidazione del tema di fondo della conferenza, il
Ven. Sugandho ha chiesto perché la disseminazione del buddhismo
theravada non riscuote più il successo di una volta. Dopo tutto,
il
buddhismo theravada è il guardiano della tradizione più antica e
più pura del messaggio del Buddha; e io credo che la maggior parte di
noi qui presenti oggi consideri il valore morale e il fulgore
intellettuale
di quel messaggio tra i più elevati nell'intera storia
dell'umanità. E allora, se abbiamo un prodotto così
buono, perché non riusciamo a venderlo?
Vi propongo delle risposte a questa domanda, in tutto
il dettaglio che mi riuscirà di esporre nel tempo disponibile. E
penso che per lo meno dobbiate concordare che se non c'è nulla
che non va nel messaggio, allora si deve supporre che ci sia qualcosa
che non va nei messaggeri.
Tanto per iniziare, permettetemi di tornare sulla consolazione e sulla
sfida. Come ha scritto il Ven Sugandho
nella presentazione della conferenza, i missionari theravada
ovviamente preferiscono apportare consolazione piuttosto che lanciare
sfide. Piuttosto che insegnare il buddhismo alla popolazione
locale
del paese che li ospita, si danno alla gestione di centri culturali
per gl'immigrati buddhisti provenienti dai loro stessi paesi
d'origine, centri che infatti esercitano le loro attività
soprattutto in lingua singalese, birmana, thai ecc., non nella lingua
del paese dove le loro missioni si trovano. Darsi alla gestione
di
un tale centro non è in se un'attività indegna: nel mondo moderno
la maggior parte dei paesi considera la presenza di legati e servizi
consolari della cultura parte delle loro missioni diplomatiche.
Ma
se questa è l'attività principale e centrale della missione, ci si
dimostra una debolezza di fondo estremamente seria del buddhismo
theravada che si trova oggi nel mondo: il suo nazionalismo
parrocchiale. È un oltraggio constatare come la grande
maggioranza
dei buddhisti theravada, che siano monaci o laici, considerino
solamente i buddhisti della loro stessa nazionalità essere veri
buddhisti; e non importa che cosa dicano in pubblico, questo è
quello che veramente la maggior parte di loro pensa.
È perfettamente naturale e indiscutibile che la gente si senta scaldare
il cuore nei confronti della propria famiglia, e al di la di questa
nei confronti di quelli con i quali sentono di avere una certa
affinità per il condividere la stessa lingua, tradizioni e
vicissitudini. Ma non c'è una parola negl'insegnamenti del
Signore
Buddha – o, a riguardo, neanche in quelli di Gesù Cristo o del
Profeta Maometto – che possa giustificare il trattare qualcuno
meno bene di un'altro per il semplice fatto che è diverso da noi
o che ci sono in qualche senso estranei. Il buddhismo, il
cristianesimo e l'islam sono dette religioni universali proprio
perché sono per tutti, senza distinzioni. Tutte le grandi
tradizioni religiose insegnano che la gente dovrebbe amarsi l'un
l'altro, essere gentili e compassionevoli. Con questo intendono
dire
che si dovrebbe amare tutti, non solo quelli che sono facili da
amare. Amare qualcuno che è sempre gentile con te non è più di
quanto
fanno la maggior parte degli animali per istinto. L'amore diventa
un
fatto etico quando è diretto ai nostri nemici, o ad altri che è
difficile amare.
Ma come si comportano in realtà i buddhisti theravada? Lasciatemi
cominciare con un esempio famigerato e
indiscutibile: il loro atteggiamento verso i buddhisti mahayana.
(So
che le cose potrebbero non essere migliori nell'altro verso, ma non
è questo che m'interessa: adesso sto parlando dei theravada.) Ho
compiuto uno studio approfondito tra i buddhisti singalesi, e in
particolar modo tra i membri del Sangha singalese, dal più alto
al più basso di rango. Posso dire fiducioso che quasi tutti i
buddhisti singalesi non considerano i monaci e le monache mahayana
autentici buddhisti perché non proibiscono l'assunzione di cibi
solidi dopo mezzogiorno.
Non ricevendo un'appropriato orientamento dal Sangha, ai laici
potrebbero essere perdonati i loro pregiudizi. Ma
almeno il Sangha dovrebbe sapere che la necessità dell'amore
universale va al di là dell'insegnare come fare metta bhavana.
Dovrebbero
anche sapere che il Buddha dichiarò, nella sua saggezza,
che ci sono tre legami (in Pali: tini samyojanani) che ci
legano al samsara e che sono ostacoli al progresso spirituale; e il
secondo di questi è l'aderenza al rituale. In pali è
chiamato silabbata-paramasa. Per dare un sermone adeguato
su
questo argomento d'importanza vitale ci vorrebbe troppo tempo, ma il
punto è così cruciale per la mia tesi che ne devo dire di più.
Il Buddha aveva sostenuto che il valore etico sta
nella sola intenzione. L'individuo è autonomo e il giudice ultimo
è
la sua coscienza. La recitazione di parole, persino le parole dei
cinque
precetti, è inutile e vana a meno che non si stia coscienziosamente
aderendo al loro significato. Ma invece l'obiettivo del rito è
il fare, non il coltivare l'intenzione. E quindi il rito non può
avere alcun valore morale o spirituale. Vi prego di tenere questo
in
mente.
Il Buddha spesso dava nuovi significati a vecchi termini. Prese
la
parola brahmanica per rituale, karman
in sanscrito, e la usò
per indicare l'intenzione etica. Questa operazione da sola
rovesciò
l'etica legata alle caste, perché l'intenzione di
un brahmano [per il buddhismo] non è plausibile che sia dichiarata
dal punto di vista etico di una qualità completamente diversa
dall'intenzione di un fuoricasta: l'intenzione può solo essere
virtuosa o malvagia.
L'aver sostituito il Buddha l'azione rituale con l'intenzione etica
è il fondamento, la pietra su cui posa il suo
insegnamento visto come un sistema di idee. E non in minor grado
è il fondamento del successo storico del Buddhismo. Essendo
l'intenzione la stessa in tutti gli esseri umani, l'etica buddhista
vale nello stesso identico modo per tutte le società. Ad esempio,
il terzo precetto, non darsi ad un'erronea condotta sessuale, è
universale, ma la sua applicazione varia, perché i costumi delle
varie società sono diversi: per esempio, alcune società ammettono
la poligamia, alcune la poliandria e alcune nessuna delle due. Le
differenze nei costumi locali non erano quindi ostacoli alla
diffusione del buddhismo. Come ho scritto: “Essendo il buddhismo
vincolato né alla comunità né al luogo, né al tempio né alla
terra, ma risedendo nel cuore dei suoi aderenti, era facile da
trasportare.” E così il buddhismo poté andare ovunque andavano
gli uomini e mettere radici ovunque prendessero dimora. Ma quello
che può diffondersi è il buddhismo, il buddhismo del Buddha, che ha a
cuore solamente il bene e il male morale e che li misura secondo
l'intenzione. Il buddhismo che misura le azioni attraverso il
rito e
i costumi non può mai diffondersi in nessun posto: è come il
brahmanesimo che il Buddha criticava, che non non è mai né mai sarà
adottato da qualsiasi società oltre quella in cui ha mosso i
primi passi.
Miei venerabili amici, questo è il cuore e la sostanza del
mio messaggio oggi. Vi supplico di rinunciare all'ossessione per
il
rito e il costume, di seguire l'insegnamento del Buddha
sull'intenzione etica e quindi di portare il suo messaggio al
mondo.
Stavo dicendo che a malapena un qualsiasi buddhista singalese è
disposto a considerare i buddhisti mahayana
correligionari, per via del fatto che il Sangha mahayana permette di
mangiare cibo dopo mezzogiorno. Naturalmente, il Sangha mahayana
ordinato nella tradizione cinese è altrettanto sdegnoso nei
confronti dei loro fratelli theravada, perché considerano
obbligatorio per un autentico buddhista essere vegetariano; ma pochi
singalesi lo sanno. In ogni caso non m'interessano tanto le
diatribe
botta-e-risposta di questo tipo, quanto piuttosto i veri ed enormi
danni che questi atteggiamenti causano al buddhismo.
L'istituzione
buddhista singalese è così poco pronta a riconoscere la validità
del buddhismo mahayana che negli ultimi anni '50, quando i cinesi
hanno invaso il Tibet, ucciso molti monaci e saccheggiato numerosi
monasteri, e quando il Dalai Lama dovete fuggire, il governo dello
Sri Lanka si rifiutò di unirsi al coro mondiale di condanna. Quel
governo sedicente “buddhista” rifiuta ancora oggi di riconoscere
il Dalai Lama come un grande leader spirituale, che non è mai stato
invitato a visitare il paese. Cosa può pensare un estraneo che
stia
tentando di misurare il valore del buddhismo di un tale vergognoso
trattamento della persona che il mondo considera il più grande
buddhista vivente?
Ma ipotizziamo, solamente ai fini del dibattito, che il buddhismo
mahayana non sia vero buddhismo e che non vogliamo avere nulla a
che fare con monaci o monache che, qualsiasi sia la loro moralità
o spiritualità, siano tanto indegni da osare di mangiare dopo
mezzogiorno. E allora portiamo il nostro sguardo
dallo Sri Lanka ad un'altra delle residenze della tradizione theravada,
il Myanmar. Dubito che ci sia una persona in questa
sala
che non riesca ad indovinare quello che sto per dire. Negli
ultimi
anni l'intero mondo, nonostante i frenetici tentativi di censura del
governo del Myanmar, ha potuto essere testimone, per televisione, di
come monaci che stavano esprimendo pacificamente il loro disaccordo
con la crudeltà e la disumanità della politica del governo siano
stati assassinati e torturati. Naturalmente hanno potuto vedere
solo
una minuscola parte delle atrocità commesse, ma anche il poco che
abbiamo potuto vedere dev'essere stato abbastanza per convincere un
qualsiasi sincero buddhista del completo e crudele disprezzo che il
governo mostra nei confronti tanto dei diritti umani in generale,
quanto dei rappresentanti viventi del buddhismo in particolare. E
cosa hanno fatto in proposito gli altri governi che dichiarano di
sostenere il buddhismo theravada? Nulla: neppure una protesta
diplomatica. D'accordo, sono politici, potreste dire, e non ci si
aspetta gran che da loro in termini di condotta etica. Ma che
dire
delle guide del Sangha? Ci sono stati alcuni individui coraggiosi,
lo so, che hanno fatto uno sforzo silenzioso per alleviare un po' le
sofferenze causate dal governo del Myanmar. Alcune organizzazioni
Buddhiste in Thailandia hanno espresso pubblicamente la loro
disapprovazione per la tortura e l'assassinio di monaci. Ma in
tutti
i paesi buddhisti theravada, a meno che non sia enormemente in
errore, la gerarchia ha chiuso un occhio, senza mostrare più
interesse che se avesse il governo del Myanmar appena schiacciato
qualche zanzara.
Mi spiace dirlo, ma una delle cose che attrae di più la gente
verso una religione è quando questa genera persone
capaci di parlare con franchezza contro la crudeltà e
l'ingiustizia. Dove sono i leader theravada paragonabili al Dalai
Lama
e a Thich Nhat Hanh? I veri leader religiosi non hanno paura di
sollevare
controversie. Come ho detto, devono spesso sollevare delle
sfide. Tra i
leader del Sangha theravada odierno persino il dibattito,
figuriamoci le sfide, sembra essere tabu. Preferiscono la
comodità
dell'auto-congratulazione senza fine; preferiscono condurre il mondo
al suono di una retorica eterea, proponendo risoluzioni sulla pace
nel mondo che non hanno mai portato un solo soldato ad abbassare le
armi o persuaso un solo politico ad amare il suo vicino.
So che alcuni probabilmente avranno una risposta pronta alla mia
obiezione che le gerarchie buddhiste non hanno fatto sentire la loro
protesta contro la persecuzione del buddhismo, persino [contro]
l'assassinio di monaci, da parte di governi stranieri. Quella
risposta è che il Sangha non deve immischiarsi con la politica.
Prendiamo in considerazione questa opinione.
I diritti d'autore sono detenuti dall'Autore dell'originale.
I diritti della traduzione in italiano sono del traduttore.
La traduzione italiana è coperta, ove compatibile con la licenza dell'originale,
dalla licenza Creative Commons versione 3.0 Attribuzione - Non commerciale -
Condivisibile alle stesse condizioni
http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/3.0