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Data:
Wed, 10 Dec 2008 21:47:51 +0100
Oggetto: Re: la liberazione e' impossibile per gli sposi?
ID-messaggio: <6qao7mFbn1atU1@mid.individual.net>

Lievemente riedito.


Phillip ha scritto:
On 12 Nov, 20:23, "PemaDawa" <nos...@nospam.it> wrote:
Mi chiedo se la liberazione sia
impossibile per tutti gli sposi.

Non credo sia impossibile, ma sicuramente più difficile... il rapporto di
coppia è in sè una forma di attaccamento molto forte...
Facendo però i conti con i propri limiti forse non tutti hanno la
motivazione per diventare asceti e quindi nel proprio piccolo credo che la
coppia possa essere anche "sfruttata"come un esercizio di pratica
(compassione, pazienza, etc...) prendendosi cura ogni giorno della vita del
proprio compagno...

Capisco, certo anche il matrimonio dovrebbe essere vissuto come una
pratica spirituale.  Ma metto molta speranza nella verita' della
rinascita, di vite future in cui si potra' seguire vie differenti.

  Ho tra le mani un libro che contiene un capitolo molto ben in tema con l'argomento.  È intitolato: "An analytical Study of Four Nikāyas", del prof. Dipak Kumar Barua, professore e capo del Dipartimento di lingua pāli dell'università di Kolkata (allora Calcutta), oggi in pensione (http://alessandro.route-add.net/Testi/Dhammico/biblioteca.html#10).

  La trattazione del rapporto dei laici con la pratica che mira alla liberazione è troppo estesa perché la possa tradurre tutta.  Mi limiterò ad estrarne pochi brani tra i più significativi e pertinenti la discussione.

    «In un discorso del Majjhima Nikāya troviamo che a causa
    dell'eccessivo amore ed affetto per gli altri, gli esseri
    umani sperimentano molta sofferenza.  Così si dice, ad
    esempio, che quando un bambino che era caro, piacevole e
    il solo figlio di un uomo di casa muore, il padre
    rimane sconvolto e piange per il bambino sul luogo
    della cremazione. [MN, vol. II, pt. I (P.T.S.), pag. 106]
    Il Buddha dichiara quindi che la pena, il dolore, la
    sofferenza, il lamento e la disperazione sorgono dall'
    affetto.  Ma la beatitudine e la felicità [duraturi,
    NdT(1)] né sorgono dall'affetto, né hanno origine nell'
    affetto.» (pag. 97)

1) A giustificare l'interpolazione, si noti però cosa altrove si riferisce il Buddha abbia detto a proposito dell'esperienza dei sensi. In Saṃyutta Nikāya IV I 135 dice di se stesso avere «conosciuto invero [...] gli inferni delle sei sedi di contatto [sensoriale] [...] Io ho conosciuto invero [...] i cieli [=paradisi] delle sei sedi di contatto [sensoriale]».  Questo brano mi sembra equilibrato, al contrario di quello di sopra privo dell'interpolazione /duraturi/.  Similmente, altrove(2) parla di tre caratteristiche dell'esperienza dei sensi: quello della dolcezza che procura l'esperienza di sensazioni piacevoli, quello dello squallore che procura la constatazione dell'impermanenza, del dolore che vi è insito e della sua mutevolezza, e infine la caratteristica dello scampo dall'esperienza sensoriale che procura l'essere un essere risvegliato, un illuminato.

2) In Saṃyutta Nikāya, I III 26, "La dolcezza".

  Quello che è rilevante è la capacità di riconoscere lo squallore come tale e di sapersi addestrare perché ce se ne possa scampare.  Per i laici fare la prima di queste due cose è molto più difficile che per un asceta; fare l'ultima è ritenuto di fatto impossibile.
  Cosa resta da fare allora ai laici?  Ancora dal Saṃyutta Nikāya cito il testo IV VIII 12, "Rāsiya", che recita:

    «II 6. "Questi tre amanti dei piaceri, o capovillaggio,
    si vedono al mondo; quali tre?
    7. "Ecco, capovillaggio: un amante dei piaceri va in
    cerca di godimenti non rettamente, con foga; dopo averli
    così ricercati non ne gioisce per sé, non ne gode, non
    ne fa parte [ad altri], non acquista meriti.
    8-14. [sette variazioni del paragrafo 7 con varie
    combinazioni di negazioni o affermazioni]
    15. "Ancora: un amante dei piaceri va in cerca di
    godimenti rettamente, senza foga; [...] ne gioisce per
    sé, ne gode, ne fa parte [ad altri], acquista meriti;
    però egli fruisce di quei godimenti rendendosene schiavo,
    da essi intossicato e padroneggiato, senza scorgerne il
    pericolo, senza sapere come affrancarsene.
    16. "Ed ecco infine, o capovillaggio, un amante dei
    piaceri che va in cerca di godimenti rettamente, senza
    foga; [...] ne gioisce per sé, ne gode, ne fa parte [ad
    altri], acquista meriti; egli fruisce di quei godimenti
    senza rendersene schiavo, senza lasciarsi intossicare e
    padroneggiare da essi, scorgendone il pericolo, sapendo
    come affrancarsene".»

  Della parte III il Traduttore da solo una glossa:

    [III 17-26. L'amante dei piaceri è da lodare se va in
    cerca di godimenti rettamente, se ne gode lui stesso e
    ne fa parte ad altri acquistando meriti, se ne fruisce
    senza rendersene schiavo; è da biasimare in caso
    contrario.]

  Il "fare meriti" nel buddhismo vuol dire poter conseguire una rinascita più elevata, ma vuole anche dire mancare la liberazione completa dal mondo, dalla rinascita.

  Torno adesso al Barua.

    «E così  si vede che a causa dell'amore e dell'affetto
    gli esseri umani devono soffrire molto e non riescono
    ad ottenere la salvezza spirituale.» (pag. 97)

Discorso chiuso?  No.  Il seguito dell'insegnamento fornisce le istruzioni che si devono dare ad un laico malato.  Questi dovrebbe essere consolato portandogli alla mente i benefici che si conseguono avendo fiducia nel signore Buddha, nella sua dottrina, nella comunità dei monaci, nelle regole di vita morale che ha seguito nella sua vita.  Quindi, è bene che il laico malato porti la sua mente al di là dei piaceri umani fissandola gradualmente sui Quattro grandi re (delle direzioni cardinali, presumo), passando poi passo passo al cielo dei Trentatré dei, poi a quello degli dei Yama, degli dei Tusita, degli dei Nimmānarati, degli dei Paranimmānarati e infine del dio Brahma.

    «Dovrebbe quindi essere istruito [del fatto] che anche
    il mondo di Brahma è impermanente, instabile e limitato
    all'individuo.  E allora sarebbe bene che lui innalzi la
    propria mente al di sopra del mondo di Brahma e la
    raccolga sulla cessazione dell'individuo, e in questo
    stadio non c'è differenza tra un discepolo laico che
    così dichiara e un monaco la cui mente è libera dagli
    āsava [le "corrosioni" della mente](120).
    Evidentemente si potrebbe sollevare una domanda
    pertinente sull'ottenimento dell'emancipazione finale
    da parte di un laico.  Un esame dei Nikāya mostra che
    sebbene un laico sia dichiarato incompetente per il
    raggiungimento del più alto stadio del conseguimento
    spirituale, ossia della condizione di arahat, per via
    della sua particolarità mentale e spirituale, lo stesso
    può raggiungere gli altri tre stadi, cioè quelli del
    sotapañña [entrato nella corrente], sakadāgāmi [che
    torna un'ultima volta] e anāgami [che non torna più].
    [...]
    È detto esserci un mare di differenza tra il modo di
    vivere di un muni [asceta] e quello di una persona che
    vive in famiglia.
    [...]
    Anche Nāgasena dice che lo stesso giorno che un laico
    consegue la condizione di arahat, egli deve o morire o
    indossare l'abito giallo [del monaco].  Appare evidente
    come nessun devoto laico possa distruggere la propria
    sofferenza, neanche in punto di morte(127).  Può al
    massimo essere un anāgami che nasce un'ultima volta
    come un dio per ottenere il nibbāna.  Ma il dott. B.
    C. Law pensa che la gente che vive in famiglia possa
    diventare arahat(128).  Trae sostegno per questa idea
    dai Nikāya(129), in cui si dice che gahapati [laici
    "capitalisti", così li definisce il Barua a pag. 69]
    come Sudatta, Citta, Ugga e alcuni altri devoti laici
    hanno realizzato l'immortale (amataddaso), ossia il
    nibbāna.» (pagg. 99-100)

    Note:
    120: Saṃyutta Nikāya, vol. V (ed. Pāli Text Society), pagg. 408-410.
    127: Majjhima Nikāya, I, p. 483 [P.T.S.].
    128: Annali dell'Istituto Orientale Bhandarkar, XIV, pag. 72.
    129: Aṅguttara Nikāya, vol. III, pag. 451


  Insomma, è estremamente arduo e raro.  Mi ritorna alla mente la citazione di Geshe Gedun Tharchin, che riporta le opinioni di due maestri Zen giapponesi che ritengono che nella storia della loro tradizione i maestri pienamente risvegliati siano dell'ordine del migliaio, con al massimo una dozzina di loro ancora viventi.  Se è tanto difficile e raro per dei maestri che alla Via hanno dedicato la vita, tanto di più lo è per i laici che per forza di cose non possono coltivarla altrettanto intensamente.  Eppure, certi esseri "speciali" ci sono riusciti lo stesso.  L'eccezione che conferma la regola, vien da dire.

  Spero d'averti incoraggiato, piuttosto che depresso.


  Ciao,


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