UN DIVERSO GENERE DI NASCITA


Buddhadasa Bhikkhu (1906 - 1993)
http://www.suanmokkh.org/ (in inglese)



«Tutto ciò che si crea e si distrugge non è che il riflesso momentaneo dei
fenomeni»

Conversazione tenuta a Phattalung (Thailandia) il 16 luglio 1969.



La presente traduzione italiana, a cura di Mauro Barinci, è stata condotta
sulla traduzione inglese dell'originale intitolata Another kind of birth, e
non recante indicazione dell'editore né della data di pubblicazione
(rilevabile per altro dall'indicazione dello stampatore: 1969).

Roma, novembre 1994

Lievemente riedito da Alessandro Selli (2008)



Un diverso genere di nascita

Nascita e sofferenza
L'argomento che discuteremo oggi è un argomento cruciale; ritengo che tutti dovrebbero rendersene conto.  Si tratta di queste due affermazioni del Buddha:

        «La nascita è sofferenza perpetua» (Dukkha jati punapunam)
        «La vera felicità consiste nell'eliminare la falsa idea "io"»
        (Asmimanassa vinayo etam ve paraman sukham)1.

I problemi dell'umanità si riducono al problema della sofferenza, sia quella inflitta da un altro oppure da se stessi, attraverso le impurità della mente.  Questo è il problema fondamentale per ogni essere umano, perché nessuno vuole soffrire.  Nelle due affermazioni citate il Buddha stabilisce una uguaglianza fra sofferenza e nascita: «La nascita è sofferenza perpetua»; e parimenti considera uguali la felicità e il completo abbandono della falsa idea «io», «me stesso», «io sono», «io esisto».

L'affermazione che la nascita è la causa della sofferenza è complessa, in quanto ha varî livelli di significato.  La principale difficoltà è nell'interpretazione della parola «nascita».  Noi per lo più non capiamo a cosa il termine «nascita» si riferisce, e probabilmente prendiamo questa parola nel suo significato comune, di nascita fisica, dal corpo di una madre.  Il Buddha ha insegnato che la nascita è sofferenza perpetua.  Forse che nel dire questo si riferiva alla nascita fisica? Pensateci su.  Se avesse inteso riferirsi alla nascita fisica, verosimilmente non avrebbe detto poi «La vera felicità consiste nell'eliminare la falsa idea "io"», perché questa affermazione indica chiaramente che ciò che causa la sofferenza è la falsa idea «io».  Quando l'idea «io» è stata completamente estirpata, quella è vera felicità.  Perciò la sofferenza consiste effettivamente nell'idea erronea «io», «io sono», «io ho».  Il Buddha ha detto: «La nascita è sofferenza perpetua».

Che cosa si intende qui con il termine «nascita»? È chiaro che «nascita» non si riferisce a niente altro che all'originarsi dell'idea «io» (asmimana).  La parola «nascita» si riferisce all'originarsi dell'idea errata «io», «me stesso».  Non si riferisce alla nascita fisica, come comunemente si ritiene.  La supposizione, erronea, che questa parola «nascita» si riferisca alla nascita fisica è un ostacolo sostanziale alla comprensione dell'insegnamento del Buddha.

Linguaggio quotidiano e linguaggio dhammico

Bisogna avere ben presente che in generale una parola può avere diversi significati in relazione al contesto.  Si possono distinguere principalmente due casi:
  1. il linguaggio che si riferisce alle cose fisiche, che si parla comunemente;
  2. il linguaggio che si riferisce alle cose della mente, linguaggio psicologico, linguaggio del Dhamma, che è usato da chi conosce il Dhamma (Verità superiore, insegnamento del Buddha).
Il primo tipo può essere chiamato «linguaggio quotidiano», il linguaggio parlato dalla gente in genere; il secondo può essere chiamato «linguaggio del Dhamma», il linguaggio usato dalle persone che conoscono il Dhamma.

Una persona comunemente si esprime come ha imparato a farlo, e quando usa la parola «nascita» intende la nascita fisica, dal corpo di una madre; invece nel linguaggio del Dhamma, il linguaggio usato da chi ha conoscenza del Dhamma, «nascita» si riferisce all'originarsi dell'idea «io sono».  Se a un certo momento si origina nella mente la falsa idea «io sono», è proprio in quel momento che l'«io» è nato.  Quando questa falsa idea viene meno, non c'è più alcun «io», momentaneamente l'«io» ha cessato di esistere.  Quando l'idea «io» di nuovo sorge nella mente, l'«io» è rinato.

Questo è il significato della parola «nascita» nel linguaggio del Dhamma.  Non si riferisce alla nascita fisica, da una madre di carne e sangue, ma alla nascita mentale, da una «madre» mentale, che è la brama, l'ignoranza, l'attaccamento (tanha, avijja, upadana).  Si potrebbero considerare come madre la brama e come padre l'ignoranza; in ogni caso il risultato è la nascita dell'«io», l'originarsi della falsa idea «io».  Il padre e la madre dell'illusoria credenza «io» sono l'ignoranza e la brama o attaccamento.  Ignoranza, illusione, errata comprensione, fanno nascere l'idea «io», «me».  Ed è questo genere di nascita che è sofferenza perpetua.  La nascita fisica non è un problema: una volta nata da sua madre, una persona non deve più aver nulla a che vedere con la nascita.  Nascere da una madre è cosa di pochi minuti, e nessuno si trova mai a dover ripetere questa esperienza.

Ora, noi sentiamo parlare di rinascita, di nascere ancora e ancora, e della sofferenza che inevitabilmente vi si accompagna.  Ma cos'è questa rinascita? Che cos'è che rinasce? La nascita alla quale ci riferiamo è un evento mentale, un qualcosa che ha luogo nella mente, nella parte non fisica del nostro essere.  Questo è «nascita» nel linguaggio del Dhamma.  «Nascita» nel linguaggio quotidiano è nascita da una madre; «nascita» nel linguaggio del Dhamma è nascita dall'ignoranza, dalla brama, dall'attaccamento, è l'originarsi della falsa nozione di «io» e «mio».

Questi sono i due significati della parola «nascita».  Si tratta di un punto importante, che semplicemente deve essere capito.  Chi non lo afferra bene non riuscirà mai a capire qualcosa dell'insegnamento del Buddha.  Perciò fatelo oggetto di un interesse particolare.  Ci sono queste due specie di linguaggî, questi due livelli di significato: il linguaggio quotidiano, con cui ci si riferisce alle cose fisiche, e il linguaggio del Dhamma, con cui ci si riferisce alle cose della mente, e che è usato da chi ha conoscenza.  Facciamo qualche esempio per chiarire questo punto.

Consideriamo il termine «cammino».  Di solito nell'usare questa parola ci riferiamo a una strada o via lungo la quale possono muoversi veicoli, uomini e animali.  Però la parola «cammino» può riferirsi anche al Nobile Ottuplice Sentiero, il cammino della pratica insegnata dal Buddha - retta comprensione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto modo di guadagnarsi da vivere, retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione - che conduce al nibbana.  Nel linguaggio comune «cammino» si riferisce a una via fisica; nel linguaggio del Dhamma si riferisce alla ottuplice via di retta pratica conosciuta come il Nobile Ottuplice Sentiero.  Questi sono i due significati della parola «cammino».

Analogamente per il termine «nibbana» (nirvana).  Nel linguaggio quotidiano questa parola si riferisce al raffreddarsi di un oggetto caldo.  Per esempio, quando i carboni accesi si sono raffreddati, si dice (in pali o in sanscrito) che si sono «nibbanati»; quando del cibo caldo in una pentola o su un piatto diviene freddo si è «nibbanato».  Questo è il linguaggio quotidiano.  Nel linguaggio del Dhamma «nibbana» si riferisce a quella quiete che deriva dall'eliminare le impurità della mente.  In ogni momento in cui vi è libertà dalle impurità della mente, è in quel momento che c'è quiete, un nibbana momentaneo.  Pertanto «nibbana» o «quiete» ha due significati, a seconda che chi parla stia usando il linguaggio quotidiano o quello del Dhamma.

Un'altra parola importante è «vuoto» (suññata, sunyata).  Nel linguaggio quotidiano, il linguaggio delle cose fisiche, «vuoto» significa assenza totale di qualsiasi oggetto; nel linguaggio del Dhamma significa assenza dell'idea «io», «mio».

Quando la mente non è occupata nell'afferrare un qualche cosa o nel tenerglisi stretta in termini di «io» o «mio», è in uno stato di «vuoto».  La parola «vuoto» ha questi due livelli di significato, l'uno riferito alle cose fisiche, l'altro a quelle della mente, uno nel linguaggio quotidiano, l'altro nel linguaggio del Dhamma.  Il vuoto fisico è l'assenza di un qualsiasi oggetto, vacuità.  Il vuoto mentale è lo stato nel quale tutte le cose del mondo fisico sono presenti come di solito, ma nessuna di loro è oggetto di acquisizione, di attaccamento in termini di «mio».  Una mente in questa condizione si dice «vuota».

Quando la mente arriva a vedere come sia vano il desiderare le cose, vivere in funzione di esse, acquisirle, tenervisi stretti, allora è vuota di desiderio, di voler essere, di acquisività, di attaccamento.  La mente è allora una mente vuota, sgombra, ma non nel senso di essere vuota di contenuti.  Tutti gli oggetti vi sono presenti come al solito, e i processi del pensiero si svolgono anch'essi come al solito, senza però che vi siano sottesi l'acquisività e l'attaccamento all'idea di «io» e «mio».  La mente è priva di acquisività e attaccamento, e perciò è detta una mente vuota, o sgombra.

È detto nei testi: «Una mente si dice vuota quando è vuota di desiderio, avversione, illusione (raga, dosa, moha)».  Anche il mondo è descritto come vuoto, poiché è vuoto di qualsiasi cosa che potrebbe essere identificata come «io» o «mio».  È in questo senso che si parla del mondo come vuoto.  «Vuoto» nel linguaggio del Dhamma non significa vuoto fisicamente, privo di contenuti.  Vedete la confusione e i fraintendimenti che possono nascere se queste parole sono prese nel loro significato quotidiano.  Se non comprendiamo il linguaggio del Dhamma, non potermo mai comprendere il Dhamma; e il termine del linguaggio del Dhamma più importante da capire è quello di «nascita».

Il genere di nascita che per noi costituisce un problema è la nascita mentale, il nascere o sorgere della falsa nozione di «io».  Una volta sorta l'idea «io», inevitabilmente segue l'idea «io sono così e così».  Per esempio, «io sono un uomo», «io sono una creatura vivente», «io sono un uomo buono», «io non sono un uomo buono», o qualche cos'altro del genere.  E una volta che è sorta l'idea «io sono così e così», la segue l'idea di confronto: «io sono migliore di Tizio», «io sono inferiore a Tizio», «io sono come Tizio».

Queste idee sono tutte di un tipo; tutte rientrano nella falsa nozione «io sono», «io esisto».  È a questo che il termine «nascita» si riferisce.  Perciò in un giorno solo possiamo nascere molte volte, dozzine e dozzine di volte.  Anche in un'ora possiamo nascere e nascere, tante volte.  Ogni volta che vengono in essere l'idea «io» e l'idea «io sono così e così», quella è una nascita.  Quando un'idea del genere non sorge, non c'è nascita, e questa assenza di nascita è uno stato di quiete.

Questo è un principio da mettere bene a fuoco: ogni volta che nasce l'idea «io», «mio», in quel momento viene in essere nella mente il ciclo del samsara, e ci sono sofferenza, struggimento, agitazione; e ogni volta che si è liberi da questo genere di imperfezioni c'è il nibbana, il nibbana del tipo chiamato tadanga-nibbana o vikkhambhana-nibbana.

Il nibbana momentaneo
Il tadanga-nibbana è menzionato nell'Anguttara-Nikaya.  È uno stato che si realizza momentaneamente, quando si dà il caso che le condizioni esterne sono tali che non sorge alcuna idea di «io» o «mio».  Il tadanga-nibbana è una cessazione momentanea dell'idea «io», «mio», dovuta a circostanze esterne favorevoli.  A un livello superiore, se ci impegniamo in una qualche forma di pratica del Dhamma, in particolare se sviluppiamo la concentrazione così che l'idea «io», «mio» non può sorgere, quella estinzione di «io», «mio» è chiamata vikkhambhana-nibbana.  E infine, quando riusciamo a realizzare l'eliminazione completa di tutte le impurità, quello è nibbana pieno, nibbana totale.

Limitiamo adesso la nostra discussione alla vita quotidiana della gente.  Ci si deve rendere conto che ogni volta che c'è l'idea «io», «mio», ci sono nascita, sofferenza, il ciclo del samsara.  L'«io» nasce, dura un momento, quindi cessa; nasce di nuovo, dura un momento, e nuovamente cessa - e questo è il motivo per il quale ci si riferisce a questo processo come il ciclo del samsara.  È sofferenza perché c'è nascita dell'«io».  Se in qualche momento succede che le condizioni sono favorevoli, cosicché non nasce l'idea «io», allora c'è pace - ed è chiamata tadanga-nibbana, nibbana momentaneo, un assaggio di nibbana, un che di nibbana, pace, quiete.

Il significato di «nibbana» si fa più chiaro quando consideriamo come la parola è usata nell'Anguttara Nikaya.  In quel testo troviamo che di oggetti caldi divenuti freddi si dice che si sono «nibbanati».  Di animali che sono stati domati, resi docili e inoffensivi si dice che sono stati «nibbanati».  Come può divenire «quieto» un essere umano? La questione è complicata dal fatto che l'attuale conoscenza e comprensione della vita l'uomo non le ha acquisite tutte insieme; queste si sono sviluppate gradualmente, in un lungo periodo.

Parecchio tempo prima del Buddha, la gente riteneva che il nibbana fosse nel piacere sensuale, perché chi si procura tutti i piaceri sensuali che vuole, effettivamente prova una certa quiete.  Una doccia in un giorno caldo dà un certo rilassamento; ritirarsi in un posto silenzioso fa provare una quiete di genere diverso, in termini di appagamento, di assenza di motivi di turbamento.  Perciò anzitutto la gente era interessata a quel genere di nibbana che consiste in un'abbondanza di piacere sensuale.

In seguito, uomini di saggezza maggiore si resero conto di come ciò fosse insoddisfacente.  Videro come il piacere sensuale fosse in gran parte illusorio (maya) e cercarono la quiete nella tranquillità mentale della concentrazione (jhana).  I jhana sono stati di autentica quiete della mente, e questo era il genere di nibbana al quale la gente era interessata nel periodo immediatamente precedente l'illuminazione del Buddha.  I guru insegnavano che il nibbana coincideva con lo stato di concentrazione mentale più raffinato.

L'ultimo guru del Buddha, Udakatapasa Ramaputra, gli insegnò che raggiungere il «jhana di né percezione né non percezione» (n'eva sañña n'asaññayatana) era raggiungere la completa cessazione della sofferenza.  Il Buddha però non accolse questo insegnamento; non ritenne che si trattasse del nibbana autentico.  Andò avanti da solo e analizzò a fondo la questione, finché non raggiunse quel nibbana che è la totale eliminazione di ogni specie di brama e di attaccamento.

Come lui stesso in seguito insegnò: «La vera felicità consiste nell'estirpare la falsa idea "io"».  Quando le impurità sono state totalmente eliminate, quello è il nibbana.  Se le impurità sono assenti soltanto momentaneamente, è un nibbana momentaneo.  Di qui l'insegnamento, che abbiamo già discusso, del tadanga-nibbana e del vikkhambhana-nibbana.  Questi termini denotano una condizione di assenza di impurità.

Ora, se esaminiamo noi stessi, scopriamo che non siamo sempre dominati dalle impurità; ci sono momenti in cui ne siamo liberi.  Se non fosse così, in breve le impurità ci farebbero impazzire e moriremmo, non rimarrebbe molta gente al mondo.  È grazie a questi brevi periodi in cui siamo liberi dalle impurità che ci affliggono che non soffriamo tutti di turbe nervose e diveniamo pazzi o moriamo.  Apprezziamo la Natura per questo, e sentiamoci grati perché ci ha fatti in modo da avere ogni giorno un periodo sufficiente di sollievo dalle impurità.  C'è il tempo in cui dormiamo, e ci sono periodi in cui la mente è chiara, quieta, in pace.

Una persona che riesce ad agire secondo il disegno della Natura può evitare disturbi nervosi e psicologici; chi non ce la fa è destinato ad avere sempre più turbe nervose, fino alla malattia mentale o anche alla morte.  Siamo grati per il nibbana momentaneo, quel genere di nibbana effimero che si dà quando le condizioni sono favorevoli.  Per un breve momento siamo liberi dalla brama, dalla presunzione, e dalle false idee, in particolare da quella di «io» e «mio».  La mente è vuota, libera, per il tempo sufficiente per riposare un po' o per dormire, e così rimane sana.

La consapevolezza
In passato questa condizione era più comune di quanto non lo sia ora.  L'uomo moderno, con l'incessante cambiamento delle sue conoscenze e del suo comportamento, è più soggetto a risentire delle impurità rispetto all'uomo del passato.  Perciò l'uomo moderno va più soggetto alle infermità nervose e psicologiche; è una condizione disgraziata.  Quanta più conoscenza scientifica ha, tanto maggiore è la sua vulnerabilità alla malattia mentale! Il numero delle persone che hanno problemi psichici cresce così rapidamente da mettere in crisi gli ospedali.

La causa è semplice, e una: la gente non sa far riposare la mente.  È troppo ambiziosa.  Fin dalla più tenera infanzia le è stato insegnato ad essere ambiziosa.  Proprio nell'infanzia contrae disturbi nervosi, e al completamento degli studî ha già problemi mentali.  Questo deriva dal non interessarsi dell'insegnamento del Buddha per il quale la nascita dell'idea di «io» e «mio» è il massimo della sofferenza.

Ora andiamo avanti con la questione «nascita».  Indipendentemente dal genere di esistenza nel quale si è nati, nascita non è altro che sofferenza; il termine «nascita» qui denota attaccamento non accompagnato da consapevolezza.  Questo è un punto importante, che va compreso bene: se nella mente di una pesona sorge l'idea «io sono così e così», e la persona è consapevole del sorgere di questa idea, quel sorgere non è una nascita nel senso che la parola ha nel linguaggio del Dhamma.  Se invece la persona illusoriamente si identifica con l'idea, quella è una nascita.

Per questo il Buddha richiama l'importanza di una continua presenza mentale.  Se sappiamo chi siamo, ciò che dobbiamo fare, e lo facciamo consapevolmente, non c'è sofferenza, perché non c'è nascita di «io» o «mio».  Ogni volta che vengono in essere illusioni, sconsideratezza, negligenza, sorgono il desiderio e l'attaccamento alla falsa idea «io», «mio», «io sono Tizio», «io sono così e così», ... e questa è nascita.

Nascita è sofferenza, e il genere di sofferenza dipende dal genere di nascita.  La nascita come madre comporta il soffrire come madre, la nascita come padre comporta il sofferire come padre.  Ad esempio, se in una persona sorge l'idea illusoria di essere una madre, e in conseguenza di volere questo, quello, quell'altro ancora, questo è il soffrire come madre.  Lo stesso per un padre.  Se si identifica con l'idea di essere un padre, che vuole questo, che vuole quello, che è acquisitivo, che vuole tenersi le cose bene strette, questo è il soffrire come padre.

Ma se uno è consapevole, non ci sono questa distorsione e confusione; semplicemente, egli sa, con piena chiarezza, cosa deve fare come padre o come madre, e lo fa con mente calma e ferma, senza attaccamento all'idea «io sono questo», «io sono quello».  Così è libero dalla sofferenza, e in questa condizione è effettivamente in grado di far crescere i suoi figli in modo appropriato e con il massimo vantaggio per loro.  La nascita come madre comporta il soffrire come madre; la nascita come padre comporta il soffrire come padre; la nascita come milionario comporta il soffrire come milionario; la nascita come mendicante comporta il soffrire come mendicante.  Quello che si intende con quanto si è detto può essere illustrato dal confronto seguente.

Identificazione con l'«io-mio»
Pensiamo dapprima a un milionario, dominato da illusioni, da desiderio, da attaccamento, che è aggrappato all'idea «io sono un milionario».  Questa idea è di per se stessa sofferenza; qualsiasi cosa sia fatta o detta da quell'uomo, lo è sotto l'influsso di queste impurità, e diviene pertanto ragione di ulteriore sofferenza.  Anche dopo essere andato a letto, egli indugia nell'idea di essere un milionario, e non riesce a dormire.  Così la nascita come milionario comporta la sofferenza come milionario.

Pensiamo adesso a un mendicante; nella sua mente occupano molto spazio le sue disgrazie, la sua povertà, i suoi patimenti, le sue difficoltà - è il soffrire di un mendicante.  Ora, se in un qualche momento uno dei due uomini fosse libero da queste idee, in quel momento sarebbe libero dalla sofferenza; il milionario sarebbe libero dalla sofferenza come milionario, il mendicante sarebbe libero dalla sofferenza come mendicante.  Succede così che a volte si vede un mendicante che canta spensierato, perché in quel momento non nasce come mendicante, non si identifica con l'essere un mendicante o con una qualsiasi difficoltà.  Per un momento lo ha dimenticato, non è più nato come mendicante, è nato come uno che canta, o che suona.  Pensiamo a un misero barcaiolo.  Se si fissa nell'idea di essere povero, e rema sul suo traghetto con un senso di insofferenza e di autocommiserazione, ecco che soffre, proprio come se fosse finito dritto all'inferno.  Però, se invece di dare tanto spazio a queste idee riflettesse che sta facendo quello che deve fare, che il lavoro è la sorte degli esseri umani, e facesse il suo lavoro con consapevolezza e con mente tranquilla e ferma, si troverebbe a cantare mentre rema sul traghetto.

Analizzate minutamente, con cura, in modo netto questa domanda: a che cosa ci si riferiva con il termine «nascita» in quello che si è detto? Se in un dato momento un milionario «nasce» come milionario, in quel momento prova la sofferenza di un milionario; se un mendicante nasce come mendicante, prova la sofferenza di un mendicante.  Però, se uno non si identifica nel modo che si è detto, non «nasce», e perciò è libero dalla sofferenza, sia egli un milionario, un mendicante, un barcaiolo, o quel che sia.  Al giorno d'oggi non siamo interessati a questo genere di questioni.  Ci facciamo sopraffare da illusioni, da brama, da attaccamento.  Nasciamo come questo, quello, quell'altro, non so quante volte al giorno.  Ogni genere di nascita, senza eccezioni, è sofferenza, come ha detto il Buddha.  L'unico modo di essere liberi dalla sofferenza è quello di essere liberi dal nascere.  Perciò bisogna essere accurati, tenere sempre la mente sveglia e penetrante, non disturbata e confusa da «io» e «mio».  Allora si sarà liberi dalla sofferenza.  Che si sia un agricoltore, o un commerciante, o un soldato, o un impiegato statale, o qualsiasi altra cosa, anche un dio in cielo, si sarà liberi dalla sofferenza.

Non appena c'è l'idea «io», c'è sofferenza.  Afferrate questo importante principio, e siete in condizione di comprendere il punto essenziale del Buddhismo, e di ottenere beneficio dal Buddhismo; di trarre pienamente profitto dall'essere nati esseri umani e dall'aver incontrato il Buddhismo.  Se non lo afferrate, non ne otterrete alcun beneficio, anche se siete un buddhista; sarete un buddhista soltanto di nome, soltanto in senso anagrafico; dovrete starvene giù a piangere come tutti quelli che non sono buddhisti; continuerete a provare sofferenza come chi non è buddhista.  Per essere autenticamente buddhisti dobbiamo praticare l'autentico insegnamento del Buddha, in particolare il precetto: «Non immedesimatevi nell'"io" o "mio"; agite con chiara consapevolezza e non ci sarà sofferenza».  Allora potrete fare il vostro lavoro bene, e quel lavoro sarà un piacere.  Quando la mente è presa nell'«io» e «mio», ogni lavoro diviene pesante, opprimente in ogni senso.  Ma se la mente non si tiene stretta all'idea «io», «mio», se è sveglia, ogni lavoro, anche pesante o umile, è piacevole.

Il samsara
Questa è una verità profonda, riposta, che va compresa.  La sua essenza è in una parola: «nascita».  Nascita è sofferenza: ogni volta che riusciamo a smettere di nascere, siamo liberi dalla sofferenza.  Quante volte in un giorno una persona esperimenta la nascita, tante volte in quel giorno dovrà provare sofferenza; se non sperimenta affatto la nascita, non dovrà soffrire affatto.  Così la pratica diretta del Dhamma, il nucleo dell'insegnamento del Buddha, consiste nel mantenere una vigilanza attenta sulla mente, affinché questa non dia luogo alla condizione chiamata il ciclo del samsara, e sia sempre nello stato chiamato nibbana.  Si deve essere attenti, e custodire la mente in ogni momento, così che vi sia un costante stato di quiete, e non rimanga alcuna possibilità per il verificarsi del samsara.

Alla mente diverrà familiare giorno e notte lo stato di nibbana; questo stato può divenire permanente e completo.  Un nibbana momentaneo lo abbiamo già, si verifica quando le circostanze sono favorevoli; è un assaggio, un anticipo di nibbana.  Conservatelo con cura; non lasciate nessuno spazio aperto al samsara, all'idea di «io», di «mio».  Non fate nascere l'idea «io».  Siate vigili, consapevoli, sviluppate la capacità di penetrare nel profondo.  Qualsiasi cosa facciate, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, fatela consapevolmente.  Non fatevi prendere dall'«io» e dal «mio».  Allora il samsara non può nascere; la mente rimane nel nibbana finché ha piena familiarità con esso, e non può tornare indietro; questo è il nibbana pieno, o completo.

Fin dall'infanzia viviamo in un modo che favorisce la nascita dell'«io» e del «mio», e siamo abituati al ciclo del samsara.  È una condizione difficile da infrangere.  È divenuta parte di noi stessi, e per questo a volte se ne parla in termini di «legami» (samyojana) o di «disposizioni latenti» (anusaya), qualcosa che è intimamente connesso alla nostra natura.  Questi termini si riferiscono alla consuetudine di far nascere l'«io», il «mio», di dar corpo al senso dell'«io», del «mio».  In una forma si chiama avidità (lobha); in un'altra forma è chiamata avversione (krodha); in un'altra ancora illusione (moha).  Qualsiasi forma prenda, si tratta semplicemente dell'idea di «io», «mio»; autoriferimento.  Quando l'«io» vuole ottenere qualcosa, c'è avidità; quando non lo ottiene, c'è avversione; quando esita e non sa che cosa vuole, c'è confusione, fissazione su speranze e eventualità.  Avidità, avversione e fissazione di qualsiasi genere sono semplicemente forme dell'idea «io», e quando sono presenti nella mente è il samsara perenne, la totale assenza del nibbana.  In queste condizioni una persona non vive a lungo.  Però viene in aiuto la Natura: come abbiamo visto all'inizio, il processo a volte si arresta da solo, per naturale stanchezza, e ci si addormenta, o si ha un po' di respiro in qualche altra forma; la situazione migliora, si fa più sopportabile, e si evita la morte.

Il «retto vivere»
I varî esseri illuminati che sono apparsi al mondo hanno scoperto che è possibile prolungare questi periodi di nibbana, e hanno insegnato la forma di pratica più diretta per ottenerlo: il Nobile Ottuplice Sentiero.  È una pratica intesa a prolungare i periodi di quiete, o nibbana, e a ridurre i periodi di sofferenza, o samsara, impedendo per quanto possibile la nascita dell'«io» e del «mio».  È tanto semplice quanto difficile a capirsi - come l'affermazione del Buddha: «Se i monaci praticheranno il retto vivere, il mondo non sarà privo di arhat (esseri illuminati)».  (Sace me bhikkhu samma vihareyyum asuñño loko arahantehi assa).  Lo si trova difficile da credere.  Però, se lo si analizza, non si può fare a meno di crederci.  Nella semplice affermazione: «Se i monaci praticheranno il retto vivere, il mondo non sarà privo di arhat», l'espressione «retto vivere» ha un significato importante e profondo.  Retto vivere implica l'assenza dell'idea di «io», «mio».  Noi viviamo alla giornata, ma non viviamo rettamente, e così nasce l'idea di «io» e «mio».  Viene fuori ogni giorno, ripetutamente, così che il nibbana non ha possibilità di avere luogo, e non diventiamo arhat.

Retto vivere vuol dire vivere secondo il Nobile Ottuplice Sentiero: retta comprensione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retti mezzi di sussistenza, retto sforzo, retta consapevolezza, e retta concentrazione.  Se abbiamo questi otto generi di perfezione, stiamo praticando il retto vivere.  E se viviamo rettamente in questo senso, le impurità mentali non possono venire in essere, «io» e «mio» non possono nascere; vengono meno, come un animale che sia privato del cibo.  Il retto vivere sottrae l'alimento all'«io» e al «mio», e un giorno infine si inaridiscono del tutto e scompaiono definitivamente, e questo si chiama raggiungere il Frutto del Sentiero, il nibbana totale.

L'importante è la continuità nella retta comprensione e nella retta azione, così che «io» e «mio» non possano sorgere, non vi sia nascita.  Quando non c'è nascita di nessun genere, non c'è sofferenza di nessun genere, e quella è vera felicità, come ha detto il Buddha.  Una volta che si sia esaminata la questione e si sia arrivati a rendersi conto che nascita è sempre sofferenza, senza eccezione, si fa accuratamente attenzione a evitare la nascita.  È facile capire che la nascita alla quale ci si riferisce è qualcosa di mentale, qualcosa della mente; è molto difficile però controllarla.  In un giorno, anche in un'ora, di questo genere di nascita si può fare l'esperienza molte e molte volte.

State attenti a questo problema della nascita: è un problema che ci troviamo di fronte qui e ora.  Se possiamo essere padroni di questo genere di nascita qui e ora, potremo esserlo anche della nascita che segue la morte fisica.  Perciò non preoccupiamoci della nascita che viene dopo la morte fisica, preoccupiamoci piuttosto con serietà della nascita che viene prima della morte fisica, il genere di nascita che ha luogo quando siamo vivi, che si dà molte e molte volte ogni giorno; impariamo a controllarla, e il problema sarà eliminato.  Se la nascita può essere eliminata adesso, in questa vita, questa sarà la fine definitiva della nascita.

Gli otto tipi di rinascita
Tutti ci preoccupiamo della banale questione della forma nella quale rinasceremo dopo la morte, ci chiediamo in quale degli otto mondi dell'esistenza rinasceremo: se come essere infernale, animale, preta (spirito avido), asura (spirito pauroso), essere umano, divinità del paradiso dei sensi (kamavacara), brahma incarnato, o brahma incorporeo.  Ognuna di queste possibili forme di rinascita fa capo o ai Sugati o ai Duggati, secondo la natura delle sensazioni corrispondenti.  Gli stati desiderabili, o appaganti, sono chiamati Sugati; quelli di tipo contrario sono chiamati Duggati.

Questa però non è la dottrina insegnata dal Buddha.  Il suo insegnamento è stato: «dove c'è nascita non c'è che sofferenza perpetua»; ed è così indipendentemente dal mondo nel quale si nasce, perché «nascita» si riferisce ad acquisività ed attaccamento, come già detto.  Indipendentemente dalla forma in cui si nasce, c'è sofferenza.  La forma della sofferenza può essere diversa, come nel caso del milionario e del mendicante, ma è pur sempre sofferenza, dura come quella dei mondi dei Duggati.  La nascita nei mondi dei Duggati comporta le sofferenze dei mondi dei Duggati, la nascita nei mondi dei Sugati comporta le sofferenze dei mondi dei Sugati.  La nascita deve essere arrestata completamente.

Non state a chiedervi come rinascerete, a pensare di rinascere come essere umano, o come divinità, o come brahma.  Il risultato sarà la sofferenza di un essere umano, di una divinità, o di un brahma, perché finanche i brahma provano sofferenza, la sofferenza dei brahma.  Se i brahma ne fossero liberi, non ci sarebbe alcun bisogno del buddhismo.  Il buddhismo è venuto in essere al fine di produrre arya, persone che hanno posto fine alle sofferenze di qualsiasi genere, a quelle degli esseri umani, delle divinità, e dei brahma.  Per questo motivo il Buddha ha l'appellativo di «Maestro di dèi e di uomini»: egli ha insegnato a porre fine alla sofferenza per tutti gli esseri.

Qui bisogna essere cauti.  Una persona in questa particolare vita ha la possibilità di rinascere in uno qualsiasi dei mondi dell'esistenza nel vasto ciclo del samsara: in uno dei mondi inferiori, o Duggati, come essere infernale, animale, preta, o asura; nel mondo di mezzo, come essere umano; oppure in uno dei mondi superiori, come divinità della sfera dei sensi, o come brahma incarnato, o (a livello più elevato) come brahma incorporeo.  Ci sono perciò otto possibilità: i quattro stati dolorosi, o mondi inferiori, il mondo umano, o mondo di mezzo, e i tre stati celesti, o mondi superiori.

Ognuna di queste otto forme di nascita è sofferenza, ciascuna nella sua propria particolare forma.  Se ci si identifica con lo stato nel quale si è nati, inevitabilmente si proverà la sofferenza del genere corrispondente - ed ognuno di noi nella vita quotidiana ha sperimentato questi otto generi di nascita.  Cerchiamo di capire che cosa significa.  Cominciamo dalla nascita negli stati dolorosi, la nascita come essere infernale, animale, preta (spirito avido), o asura (spirito pauroso).

Il vero significato di «inferno» è ansia (letteralmente «fuoco della mente»).  L'ansia divora come il fuoco.  Se qualcuno ne è intriso, consumato, riconosciamo in lui una creatura dell'inferno.  Sia egli monaco, novizio, converso, capofamiglia o cos'altro, se è pervaso di ansia («fuoco nella mente»), se si strugge nelle implicazioni dell'«io» e del «mio», egli è nell'inferno.  Se in un dato momento la mente di una persona è fissata su un'idea, in quel momento la persona è un essere ottuso, un animale.  Ogni volta che la mente di una persona, maschio o femmina, monaco o laico, o cos'altro, è illusa, quella persona nasce come animale.  Il significato della nascita come animale è illusione.

Ogni volta che l'«io» e il «mio» prendono la strada della fame e della sete della mente, così come un giocatore o uno che compra biglietti di una lotteria provando bramosia per il denaro, bramosia di vincere un premio, una bramosia della mente - questo è nascita come preta (spirito avido).  Nascere come preta è estrema avidità nella mente.

Se c'è paura, timore, questo è nascere come asura (spirito pauroso).  Il termine «a-sura» significa «non coraggioso»; un asura è una qualsiasi persona timorosa, facile a spaventarsi.  In un giorno solo possiamo nascere in tutti e quattro questi stati.  Fate attenzione! Notate in quale forma sorgono l'«io» e il «mio».  Se sorgono nella forma dell'ansia, si nasce come essere dell'inferno; se in quella della fissazione, come animale; se in quella della fame della mente, come preta; e se sorgono nella forma della paura, si nasce come asura.  Mostriamolo con un esempio.

Uno scommettitore fa uno sbaglio grossolano e perde tutto; prova ansia, come se un fuoco lo divorasse; è finito nell'inferno qui nella casa da gioco.  Di nuovo, quando si illude che il gioco può risolvere i suoi problemi, è un essere ottuso, un animale - anche prima di iniziare a giocare.  Quando nel corso del gioco ha una fame mentale incontrollabile, allora è un preta.  E quando ha paura di non vincere e di perdere tutto, è un asura.  Questo esempio da solo, il caso di un giocatore in una casa da gioco, mostra come si può nascere come essere dell'inferno, animale, preta, asura.

I nostri nonni erano saggî, altrimenti non avrebbero avuto il detto: «Il paradiso è nel cuore, l'inferno nella mente».  Evidentemente i loro figlî e nipoti non sono saggî, perché ritengono che si vada in paradiso o all'inferno soltanto dopo morti, dopo essere stati deposti nella bara.  Esaminate questa idea, e vi renderete conto di come sia poco saggia.  Siamo intelligenti allora come i nostri nonni, almeno limitatamente al renderci conto che il paradiso e l'inferno stanno nella mente.

Pensate all'esempio del giocatore, che può divenire una creatura dell'inferno, un animale, un preta, o un asura.  L'ansia può derivare dal non retto agire, o essere un risultato del kamma.  L'ansia è dolore.  A volte l'illusione può essere incredibilmente dolorosa.  Pensateci bene; analizzate e vedrete che qualche volta ci illudiamo in modo incredibile.  Questa illusione ci porta a una azione inadeguata, o non retta.  Quanto alla bramosia, è sempre presente: di piacere, di notorietà, e così via.

Se arriva al punto di essere una arsura della mente, si diviene un preta.  Perché essere avidi? Abbiamo abbastanza intelligenza per sapere che cosa dobbiamo fare; dunque facciamolo e siamone contenti, senza l'arsura che hanno i preta.  Anche se compriamo i biglietti di una lotteria, non è necessario farlo con l'arsura dei preta.  Possiamo comprare i nostri biglietti semplicemente per divertimento, o possiamo pensare che in questo modo contribuiamo a raccogliere fondi per lo sviluppo del paese.  Non è il caso di comprare i biglietti per avidità, come i preta.

Se c'è consapevolezza, «io» e «mio» non vengono in essere, e non si è avidi, non si è un preta.  Se la consapevolezza invece manca, si è avidi, si è divenuti un preta, all'istante.  Lo stesso è con la paura.  La paura può diventare un modo di essere.  Pensateci.  Avere paura, come certa gente ha, finanche dei lombrichi, delle lucertole, dei gechi e dei topi è un po' troppo.  Questa è una paura ingiustificata.  Poi c'è la paura degli spiriti, cose delle quali non può essere dimostrata neanche la presenza.  E qualcosa di cui certe persone hanno molto timore è il Dhamma.  Temono che il praticarlo renderà la loro vita piatta e arida, che tale sia il nibbana.  Perciò hanno paura del Dhamma e del nibbana.  Persone del genere sono veri e proprî asura, nel pieno senso del termine.

Passiamo ora al mondo degli esseri umani.  Il termine «essere umano» qui implica fatica, anche intensa, sudore versato, durezza del lavoro, ottenere cibo e soddisfazione dei sensi con il sudore della propria fronte.  Non ha niente a che vedere con ansia, illusione, e tutto il resto; è l'onesto scambiare il sudore della propria fronte con ciò che si vuole ottenere.

Questo è il significato del termine «essere umano».  Non pensate che abbia qualcosa in comune con i termini «creatura dell'inferno», «animale», «preta» e «asura»; questi si riferiscono a qualcosa di molto inferiore.  «Inferno» significa ansia, «animale» significa fissazione, «preta» significa avidità, «asura» significa paura.  «Essere umano» significa qualcosa di un genere del tutto diverso.  Significa semplicemente impegnarsi, perseverare, lavorare per ottenere quello che si vuole in modo onesto e retto, guadagnarlo col sudore della propria fronte.  Questo è proprio dell'essere umano.  In breve, il significato di «essere umano» è fatica, una condizione in cui la fatica è consuetudine.

Al di sopra vi sono le divinità del paradiso dei sensi (kamavacara).  Queste sono le divinità delle quali sentiamo dire che risiedono nei cieli, che hanno angeli per servirle, e così via.  Il riferimento è a una condizione di libertà dalla fatica, e di abbondanza di ogni piacere sensuale.

Più in alto ancora c'è lo stato delle persone ormai insoddisfatte dei piaceri sensuali, che sono giunte a vederli come qualcosa che contamina, e che vogliono essere pure, senza contaminazioni.  Questo è il cielo dei brahma incarnati (rupabrahma), nel quale sussiste l'interesse alle cose materiali.   Più in alto ancora c'è il livello nel quale si percepiscono l'impermanenza del proprio corpo, e l'estraneità dell'interesse per esso; si preferirebbe non avere corpo del tutto.  Una persona che sente questo è detto brahma incorporeo (arupabrahma).

Questi termini hanno un significato differente da quello dell'uso quitidiano.  Ad esempio l'inferno raffigurato nelle pitture murali dei templi, con calderoni di rame, mari di acido, piogge di lance e di spade, è una metafora: un'illustrazione in termini materiali di stati mentali che sfuggono alla raffigurazione.  È una concreta illustrazione dell'ansia, dell'irrequietezza, («fuoco della mente»).  In modo analogo abbiamo rappresentazioni fisiche dell'illusione, dell'avidità, della paura.  E parimenti il «mondo umano» è la condizione della fatica; e il cielo dei kamavacara è completo appagamento dei sensi; quando qualcuno, per via del suo denaro, potere, fortuna, o qualsiasi altra cosa, ha conseguito l'appagamento nel piacere sensuale, ed è libero dalla fatica, è una divinità nel regno dei sensi, chiamato kamavacara.  E un brahma incorporeo è una persona che non è più soddisfatta di tutto questo, che non ha più interesse alle cose materiali, e che gode soltanto di ciò che è puro, di ciò che non contamina.

Esaminiamo lo stato delle nostre menti.  A volte siamo infatuati del piacere sensuale, ma quando lo ripetiamo più e più volte finiamo per stancarcene, e vogliamo una pausa.  A volte vogliamo giocare, o ci interessiamo ad altre cose materiali; quelle cose non ci soddisfano, e cominciamo a pensare a cose non materiali, come buona sorte, prestigio, notorietà.  Mettiamola in termini più semplici.  Ci sono persone che hanno un'infatuazione per il piacere sensuale, e altre che preferiscono coltivare degli hobby, come il giardinaggio, o allevare pesci tropicali o piccioni, e arrivano a farsene un'infatuazione.  La mente è soggetta a questi cambiamenti.

Ora, può accadere che una data persona a un dato momento arrivi a vedere che tutte queste cose sono fonte di confusione e non reggono il confronto con le cose mentali - pensieri e sogni sull'eventualità di una buona sorte, sulla bellezza, o sul prestigio e la notorietà, cose non materiali.   Queste varie condizioni differiscono fra di loro in modo considerevole; costituiscono varî livelli.  Il punto è che una stessa persona può esperimentare tutti quanti questi otto generi di nascita.

Prendete in esame voi stessi, e vedete per quanti stati diversi la mente può passare.  Un giorno uno può essere preso dal piacere sensuale, per un'ora o lì intorno; poi può andargli di interrompere e andare a fare sport o praticare qualche hobby.  Un'altra volta può avere voglia di un periodo di pausa completa, senza disturbi.  A volte deve essere un «essere umano», lavorare per lunghe ore, stancarsi.  E a volte passa qualche minuto nella condizione dell'inferno (ansia); o di un asura (paura).  Ecco che una stessa persona può sperimentare in uno stesso giorno più tipi di nascita; e in una settimana può provarli tutti e otto.  Può nascere in uno degli stati dolorosi (inferno, animale, preta, asura), nel mondo degli essere umani, o negli stati celesti degli dèi e dei brahma.  Però, quale ne sia il genere, la nascita non è altro che sofferenza.  Quest'ultima affermazione è difficile da comprendere, ma una volta che la abbiate capita, avete compreso l'intero insegnamento del Buddha.

Libertà dalla nascita
L'espressione «libertà dalla nascita» non implica che non si rinasca dopo la morte fisica, che dopo essere morti ed essere stati deposti nella bara non si rinasca.  Pensateci: se nella routine quotidiana c'è soltanto consapevolezza, che impedisce il sorgere dell'«io» e del «mio», l'idea del «sé», l'egoismo - questo è essere liberi dalla nascita.

Quando non rimane altro che la consapevolezza, si è in grado di fare ciò che si deve fare, e di farlo come si deve.  In una situazione del genere fare il proprio lavoro è un piacere; poter fare il proprio lavoro come si deve, senza «io» o «mio» di sorta, è una gioia.  Questa è l'essenza dell'insegnamento del Buddha.  In pratica ci dice di vivere con la mente libera dall'idea dell'«io», «mio».  Questo insegnamento è presente in ogni religione; è basato su una legge naturale, che può essere dimostrata in modo rigoroso, scientificamente.

Il buddhismo insegna che se fra i nostri pensieri c'è l'idea del sé, dell' autoriferimento, quella è sofferenza.  Il Cristianesimo insegna la stessa cosa: ci dice di non pensare in termini di «io» o «mio», di non commettere l'errore di identificarci con «io» o «mio».  La maggior parte dei cristiani però non comprende questo insegnamento, proprio come la maggior parte di noi buddhisti non comprende l'insegnamento del Buddha al riguardo.  È lo stesso dappertutto e in tutte le religioni: nessuno comprende la vera essenza della propria religione.  Noi buddhisti non capiamo cosa si intende con «Non nascete! Cessate di nascere!».  Non lo capiamo, e così siamo perplessi, non ci crediamo o addirittura lo consideriamo un insegnamento sbagliato.  Forse non arriviamo ad accusare il Buddha di insegnare una falsa dottrina, però nonostante tutto quell' idea ci rimane in mente; oppure possiamo pensare che un monaco che espone quella dottrina stia travisando il Buddha.  Questo succede.  Così non riusciamo proprio a capire la dottrina dell'anatta (non sé) e della suññata (vuoto), la dottrina per cui non c'è «io» o «mio».  Di conseguenza soffriamo.  Nasciamo spesso; esperimentiamo più samsara che nibbana.

La dimostrazione di tutto questo è il fatto che gli ospedali per le malattie nervose e mentali sono sovraffollati.  Questa è la dimostrazione, e ce n'è a sufficienza, non abbiamo da chiederne di ulteriori.  La gente semplicemente non capisce la verità sul come impedire l'infermità mentale.  Questo è l'obiettivo dell'insegnamento del Buddha.  Il Buddha aveva per fine una vita consapevole, di consapevolezza continua, il vedere il mondo vuoto di «io» e «mio», mantenere la mente sempre libera dall'idea «io», «mio», lasciando soltanto la consapevolezza, così da sapere quale sia il proprio dovere, e così farlo.  Questa è l'essenza dell'insegnamento del Buddha; a parte questo, non c'è altro.

L'essenza della religione
Adesso vorrei dire qualcosa su un insegnamento del Cristianesimo per il quale i cristiani stessi non hanno interesse.  È un passo del Nuovo Testamento, dall' epistola ai Corinti, nel quale San Paolo riassume l'intero insegnamento di Gesù.  È un breve passo che contiene un'esortazione al popolo di Corinto:

    Se hai moglie, pensa come se non avessi moglie.
    Se possiedi ricchezze, pensa come se non avessi
    alcuna ricchezza.  Se stai soffrendo, pensa come
    se non stessi soffrendo.  Se sei felice, pensa
    come se non fossi felice.  Se vai al mercato per
    fare i tuoi acquisti, non portare nulla a casa.
    [Prima epistola ai Corinti, 7, 29-30. (N.d.T.)]

Qui abbiamo l'essenza dell'insegnamento del Buddha nella Bibbia: «Se hai moglie, pensa come se non avessi moglie».  Paolo si rivolge agli uomini; non dice esplicitamente che una donna che ha marito dovrebbe pensare come se non avesse marito, ma si intende che l'affermazione vale sia per la moglie che per il marito.  Il significato è: «Non nutrire acquisività, attaccamento; non identificatevi con il "mio"».  Se possedete ricchezze, non siatevi attaccati, pensando ad esse come alle vostre ricchezze; pensate di non averne in realtà.  Se sorge una sofferenza, prendetela per quale è, e se ne andrà.  Non pensate ad essa in termini di sofferenza vostra.  Se avete un motivo di felicità, non consideratelo il vostro motivo di felicità.  Se andate a fare acquisti al mercato, non riportate niente a casa.  Questo vuol dire: portando i nostri acquisti a casa dal mercato, la nostra mente non li identifica come «nostri».  In questo senso non riportiamo nulla a casa.

Questo è un insegnamento cristiano, l'essenza del Cristianesimo.  Una volta ho chiesto a un cristiano, una persona di elevata condizione sociale, un insegnante, in che modo avesse inteso il passo che abbiamo citato.  Inizialmente non sapeva che dire, poi mi ha risposto: «Non gli ho mai prestato interesse».  Non aveva mai avuto alcun interesse per questo passo della Bibbia perché lo riteneva senza importanza.  Aveva prestato grande interesse alla questione della fede, eccetera, ma nessun interesse a questa questione, che è la più importante di tutte.

Ogni religione degna di questo nome tende fondamentalmente a insegnare a essere liberi dall'autoriferimento.  In ogni religione c'è l'importante insegnamento della libertà dal sé e dalla preoccupazione per il sé.  I fedeli però non hanno interesse per questo insegnamento.  Sono come noi buddhisti, che non prestiamo interesse alla dottrina della suññata e dell'anatta, la dottrina che caratterizza il buddhismo.
Mara
Possiamo dire allora così, che la gente non ha interesse per la cosa che è più importante per essa.  La gente è interessata soltanto al chiacchiericcio e al mangiare, modi di passare il tempo incentrati sul sé, che alimentano l'«io» e il «mio».  Di conseguenza le persone sono più spesso creature dell'inferno, animali, preta e asura che esseri umani.  E quando sono esseri umani, faticano e sono in tensione in modo particolarmente eccessivo, perché non sanno rilassarsi.  Se sono in uno dei mondi celesti, esperimentano il genere di sofferenza corrispondente - come divinità, come brahma, o che sia.  Questo perché non capiscono.  Sono caduti sotto l'infuenza di Mara; sono stati attratti sulla via di Mara anziché sulla via del Buddha.

Mara è un'altra delle cose delle quali non abbiamo una comprensione appropriata.  In realtà Mara denota tutte quelle cose affascinanti che attraggono la mente e la riducono in loro potere.  Mara è queste cose, in particolare il piacere sessuale e gli altri piaceri dei sensi.  Il comandante supremo di Mara ci attira nel regno celeste dei paranimmitava-savattî, il mondo nel quale abbondano le delizie dei sensi, dove poi altri subalterni di Mara si pongono al nostro servizio, ci servono, e si occupano di ogni nostra esigenza.  Questo si intende con «il comandante supremo di Mara».

Ora noi siamo vittime di Mara perché desideriamo queste cose e pertanto alimentiamo l'«io» e il «mio».  Una volta che «io» e «mio» siano venuti in essere, non c'è più fine; si è al seguito di Mara anziché al seguito del Buddha.  Quanto a Mara, è tutto qui.  Ogni qualvolta che nella mente esiste l'idea «io», «mio», Mara è presente, si è al suo comando.  E ogni qualvolta che la mente è vuota di «io», «mio», si segue il Buddha.  In uno stesso giorno si può essere per un po' al comando di Mara e per un po' al seguito del Buddha.  Chiunque può rendersene conto, non c'è bisogno perciò di discuterne qui.  Chiunque può vedere da solo che in uno stesso giorno per un po' può esservi la presenza di «io» e «mio», e per un po' l'assenza.

In qualunque momento in cui sorgono «io» e «mio», si è nati come questo o come quello, e con questo o con quello ci si identifica; ed è sofferenza, ogni volta.  Dovremmo evitarlo, e fare qualcosa per impedirne il verificarsi.  Dobbiamo alimentare e prolungare quei periodi di vuoto e di quiete, o nibbana; dopo un certo tempo saremo liberi da tutte le infermità, sia mentali che fisiche.

Diabete, ipertensione arteriosa, disturbi cardiaci - vengono tutti da «io» e «mio».  Identificarsi con «io» e «mio» causa una quantità di turbamenti che ci impediscono di riposare a sufficienza.  Quando la mente è confusa, il metabolismo degli zuccheri diviene anormale, con forti aumenti e diminuzioni, e con il risultato di una qualche malattia fisica.  Ne deriva anche infermità mentale, nella forma della sofferenza mentale.  In breve, il corpo non regge la tensione e il risultato è una malattia nervosa o mentale, o anche la morte.  Anche se si può sfuggire alla morte, è certo che si proveranno profonda sofferenza e depressione, come se si fosse finiti in uno dei mondi infernali.

L'intera questione potrebbe essere trattata in modo molto più particolareggiato.  Ad esempio, abbiamo parlato di inferno come equivalente di ansia, anche se i testi più analitici distinguono diciotto o ventuno o più ancora regioni nell' inferno.  In ultima analisi però, in tutte è presente la sofferenza del non avere requie; non c'è condizione infernale in cui ci sia quiete.  Lo stesso per i preta.  Si distinguono più tipi di preta: preta-serpenti, preta con bocche dalle dimensioni di una cruna d'ago e ventri dalle dimensioni di una montagna (perciò non possono mai saziare la loro avidità) e altri.  Ma tutti fanno capo alla stessa cosa: avidità.

Potete interpretare tutti questi particolari come credete, in modo più o meno analitico, purché comprendiate il significato fondamentale: le creature dell' inferno patiscono per l'ansia, la condizione degli animali è l'oscurità mentale, quella dei preta l'avidità, quella degli asura la paura, quella degli esseri umani la fatica, quella delle divinità dei kamavacara l'infatuazione per i piaceri sensuali, quella dei brahma incarnati l'infatuazione esclusiva per le cose fisiche, e quella dei brahma incorporei l'infatuazione esclusiva per le cose mentali.  Sono tutte forme di «nascita».

Non ci sono eccezioni, chi è «nato» è certo di soffrire.  Cercate di abbandonare completamente questa identificazione.  «La vera felicità consiste nell'eliminare la falsa idea "io"».  Mantenetevi consapevoli e capaci di vedere nel profondo; siate liberi da «io» e «mio» e sarete liberi dalla sofferenza.  Mantenete questa condizione; quando essa diviene permanente, quello è l'autentico e completo nibbana.
Il nibbana in vita
Il nibbana momentaneo lo abbiamo già.  Prolunghiamolo, e riduciamo la sofferenza, o samsara, per quanto possibile.  Non sprechiamo questa opportunità, questi ottanta o cento anni di vita in cui siamo nati.  Se non concretiamo questo perfezionamento non arriveremo mai in nessun posto, dovessimo vivere anche mille anni; ma se effettivamente lo realizziamo, possiamo giungere pienamente al nibbana già in questa vita.

Che uno sia bambino, adolescente, adulto o ottantenne, se intende a dovere il significato di tutto questo, il sorgere e il cessare della sofferenza, sarà in grado di guarire sul serio dalle sue infermità, di controllare l' autoriferimento, l'«io» e il «mio»; automaticamente ne avrà abbastanza, e inizierà a esperimentare la quiete, la felicità, l'affrancamento dalla sofferenza.  Sta tutto qui.

Il Buddha lo ha espresso sinteticamente quando ha detto: «Non siate acquisitivi, non attaccatevi a niente, a nessuna cosa (Sabbe dhamma nalam abhinivesaya)»; vale a dire, non attaccatevi in termini di «io», «mio».  Indipendentemente da quello che la cosa è - oggetto fisico, condizione, azione, oggetto mentale, risultato di un'azione o quel che sia - non pensateci in termini di «io», «mio».  Pensate che fa parte della Natura, che è la Natura stessa, che ne è una parte e che segue le sue leggi, che è proprietà della Natura.  Non consideratela in termini di «io», «mio».  Chiunque abbia la sicumera di considerarla tale è un ladro, si appropria di qualcosa che giustamente appartiene alla Natura.  Dal rubare non può derivare nulla di buono; inevitabilmente ne verrà la sofferenza di un ladro.  Di qui l'insegnamento del Buddha di non essere acquisitivi, di non attaccarsi a nulla come «io» o «mio».  Di qui ancora la sua affermazione, tanto stringata che è difficile comprenderla e più difficile ancora accettarla: «Se sarà praticato il retto vivere, questo mondo non sarà vuoto di arhat».  Questa affermazione riassume l'intero insegnamento.

Spero che vi interesserete a questo insegnamento del Buddha, che ci rifletterete, lo esaminerete, e che arriverete a comprenderlo.  È il nucleo profondo ed essenziale del Dhamma, e può davvero aiutarci a conseguire la liberazione dalla sofferenza.

1) Si confronti questa frase con la seguente del Meghiya sutta:

    Chi è cosciente di ciò che non è il Sé
    conquista l'annientamento della vanità
    dell'idea "io sono" [Asmi-mâna-samugghâta]
    in questa stessa vita, cioè conquista
    l'estinzione [nibbâna].


< Torna al livello superiore <
<< Torna alla pagina iniziale <<