UN DIVERSO GENERE DI
NASCITA
Buddhadasa Bhikkhu (1906 - 1993)
http://www.suanmokkh.org/ (in inglese)
«Tutto ciò che si crea e si distrugge non è che il riflesso momentaneo dei
fenomeni»
Conversazione tenuta a Phattalung (Thailandia) il 16 luglio 1969.
La presente traduzione italiana, a cura di Mauro Barinci, è stata condotta
sulla traduzione inglese dell'originale intitolata Another kind of birth, e
non recante indicazione dell'editore né della data di pubblicazione
(rilevabile per altro dall'indicazione dello stampatore: 1969).
Roma, novembre 1994
Lievemente riedito da Alessandro Selli (2008)
Un
diverso genere di nascita
- La nascita è sofferenza perpetua. La vera
felicità consiste nell'eliminare la falsa idea «io».
- I problemi dell'umanità si riducono al problema della
sofferenza, sia quella inflitta da un altro oppure da se stessi.
- Linguaggio quotidiano/Linguaggio del Dhamma: nel linguaggio
quotidiano il termine nascita denota semplicemente la nascita fisica,
dal corpo di una madre; nel linguaggio del Dhamma nascita si riferisce
a un evento mentale che trae origine dall'ignoranza, dalla brama e
dall'attaccamento.
- Ogni volta che nasce l'idea errata «io», è
nato l'«io»; suoi genitori sono l'ignoranza e la brama.
- Il genere di nascita che per noi costituisce un problema è
la nascita mentale.
- Se non si afferra bene questo punto non si riuscirà mai a
capire nulla dell'insegnamento del Buddha.
Nascita
e sofferenza
L'argomento che discuteremo oggi è un argomento cruciale;
ritengo che tutti
dovrebbero rendersene conto. Si tratta di queste due affermazioni
del Buddha:
«La nascita è sofferenza perpetua» (Dukkha jati punapunam)
«La vera felicità consiste nell'eliminare la falsa idea "io"»
(Asmimanassa vinayo etam ve paraman sukham)1.
I problemi dell'umanità si riducono al problema della
sofferenza, sia quella
inflitta da un altro oppure da se stessi, attraverso le impurità
della mente. Questo è il problema fondamentale per ogni
essere umano, perché nessuno vuole soffrire. Nelle due
affermazioni citate il Buddha stabilisce una uguaglianza fra sofferenza
e nascita: «La nascita è sofferenza perpetua»; e
parimenti considera uguali la felicità e il completo abbandono
della falsa idea «io», «me stesso», «io
sono», «io esisto».
L'affermazione che la nascita è la causa della sofferenza
è complessa, in quanto ha varî livelli di
significato. La principale difficoltà è
nell'interpretazione della parola «nascita». Noi per
lo più non capiamo a cosa il termine «nascita» si
riferisce, e probabilmente prendiamo questa parola nel suo significato
comune, di nascita fisica, dal corpo di una madre. Il Buddha ha
insegnato che la nascita è sofferenza perpetua. Forse che
nel dire questo si riferiva alla nascita fisica? Pensateci su. Se
avesse inteso riferirsi alla nascita fisica, verosimilmente non avrebbe
detto poi «La vera felicità consiste nell'eliminare la
falsa idea "io"», perché questa affermazione indica
chiaramente che ciò che causa la sofferenza è la falsa
idea «io». Quando l'idea «io» è
stata completamente estirpata, quella è vera
felicità. Perciò la sofferenza consiste
effettivamente nell'idea erronea «io», «io
sono», «io ho». Il Buddha ha detto: «La
nascita è sofferenza perpetua».
Che cosa si intende qui con il termine «nascita»? È
chiaro che «nascita» non si riferisce a niente altro che
all'originarsi dell'idea «io» (asmimana). La parola
«nascita» si riferisce all'originarsi dell'idea errata
«io», «me stesso». Non si riferisce alla
nascita fisica, come comunemente si ritiene. La supposizione,
erronea, che questa parola «nascita» si riferisca alla
nascita fisica è un ostacolo sostanziale alla comprensione
dell'insegnamento del Buddha.
Linguaggio quotidiano e
linguaggio dhammico
Bisogna avere ben presente che in generale una parola può avere
diversi significati in relazione al contesto. Si possono
distinguere principalmente due casi:
- il linguaggio che si riferisce alle cose fisiche, che si parla
comunemente;
- il linguaggio che si riferisce alle cose della mente, linguaggio
psicologico, linguaggio del Dhamma, che è usato da chi conosce
il Dhamma (Verità superiore, insegnamento del Buddha).
Il primo tipo può essere chiamato «linguaggio
quotidiano», il linguaggio parlato dalla gente in genere; il
secondo può essere chiamato «linguaggio del Dhamma»,
il linguaggio usato dalle persone che conoscono il Dhamma.
Una persona comunemente si esprime come ha imparato a farlo, e quando
usa la parola «nascita» intende la nascita fisica, dal
corpo di una madre; invece nel linguaggio del Dhamma, il linguaggio
usato da chi ha conoscenza del Dhamma, «nascita» si
riferisce all'originarsi dell'idea «io sono». Se a un
certo momento si origina nella mente la falsa idea «io
sono», è proprio in quel momento che l'«io»
è nato. Quando questa falsa idea viene meno, non
c'è più alcun «io», momentaneamente
l'«io» ha cessato di esistere. Quando l'idea
«io» di nuovo sorge nella mente, l'«io»
è rinato.
Questo è il significato della parola «nascita» nel
linguaggio del Dhamma. Non si riferisce alla nascita fisica, da
una madre di carne e sangue, ma alla nascita mentale, da una
«madre» mentale, che è la brama, l'ignoranza,
l'attaccamento (tanha, avijja, upadana). Si potrebbero
considerare come madre la brama e come padre l'ignoranza; in ogni caso
il risultato è la nascita dell'«io», l'originarsi
della falsa idea «io». Il padre e la madre
dell'illusoria credenza «io» sono l'ignoranza e la brama o
attaccamento. Ignoranza, illusione, errata comprensione, fanno
nascere l'idea «io», «me». Ed è
questo genere di nascita che è sofferenza perpetua. La
nascita fisica non è un problema: una volta nata da sua madre,
una persona non deve più aver nulla a che vedere con la
nascita. Nascere da una madre è cosa di pochi minuti, e
nessuno si trova mai a dover ripetere questa esperienza.
Ora, noi sentiamo parlare di rinascita, di nascere ancora e ancora, e
della sofferenza che inevitabilmente vi si accompagna. Ma
cos'è questa rinascita? Che cos'è che rinasce?
La nascita alla quale ci riferiamo è un evento mentale, un
qualcosa che ha luogo nella mente, nella parte non fisica del nostro
essere. Questo è «nascita» nel linguaggio del
Dhamma. «Nascita» nel linguaggio quotidiano è
nascita da una madre; «nascita» nel linguaggio del Dhamma
è nascita dall'ignoranza, dalla brama, dall'attaccamento,
è l'originarsi della falsa nozione di «io» e
«mio».
Questi sono i due significati della parola «nascita».
Si tratta di un punto importante, che semplicemente deve essere
capito. Chi non lo afferra bene non riuscirà mai a capire
qualcosa dell'insegnamento del Buddha. Perciò fatelo
oggetto di un interesse particolare. Ci sono queste due specie di
linguaggî, questi due livelli di significato: il linguaggio
quotidiano, con cui ci si riferisce alle cose fisiche, e il linguaggio
del Dhamma, con cui ci si riferisce alle cose della mente, e che
è usato da chi ha conoscenza. Facciamo qualche esempio per
chiarire questo punto.
Consideriamo il termine «cammino». Di solito
nell'usare questa parola ci riferiamo a una strada o via lungo la quale
possono muoversi veicoli, uomini e animali. Però la parola
«cammino» può riferirsi anche al Nobile Ottuplice
Sentiero, il cammino della pratica insegnata dal Buddha - retta
comprensione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto modo di
guadagnarsi da vivere, retto sforzo, retta consapevolezza, retta
concentrazione - che conduce al nibbana. Nel linguaggio comune
«cammino» si riferisce a una via fisica; nel linguaggio del
Dhamma si riferisce alla ottuplice via di retta pratica conosciuta come
il Nobile Ottuplice Sentiero. Questi sono i due significati della
parola «cammino».
Analogamente per il termine «nibbana» (nirvana). Nel
linguaggio quotidiano questa parola si riferisce al raffreddarsi di un
oggetto caldo. Per esempio, quando i carboni accesi si sono
raffreddati, si dice (in pali o in sanscrito) che si sono
«nibbanati»; quando del cibo caldo in una pentola o su un
piatto diviene freddo si è «nibbanato». Questo
è il linguaggio quotidiano. Nel linguaggio del Dhamma
«nibbana» si riferisce a quella quiete che deriva
dall'eliminare le impurità della mente. In ogni momento in
cui vi è libertà dalle impurità della mente,
è in quel momento che c'è quiete, un nibbana
momentaneo. Pertanto «nibbana» o «quiete»
ha due significati, a seconda che chi parla stia usando il linguaggio
quotidiano o quello del Dhamma.
Un'altra parola importante è «vuoto»
(suññata, sunyata). Nel linguaggio quotidiano, il
linguaggio delle cose fisiche, «vuoto» significa assenza
totale di qualsiasi oggetto; nel linguaggio del Dhamma significa
assenza dell'idea «io», «mio».
Quando la mente non è occupata nell'afferrare un qualche cosa o
nel tenerglisi stretta in termini di «io» o
«mio», è in uno stato di «vuoto».
La parola «vuoto» ha questi due livelli di significato,
l'uno riferito alle cose fisiche, l'altro a quelle della mente, uno nel
linguaggio quotidiano, l'altro nel linguaggio del Dhamma. Il
vuoto fisico è l'assenza di un qualsiasi oggetto,
vacuità. Il vuoto mentale è lo stato nel quale
tutte le cose del mondo fisico sono presenti come di solito, ma nessuna
di loro è oggetto di acquisizione, di attaccamento in termini di
«mio». Una mente in questa condizione si dice
«vuota».
Quando la mente arriva a vedere come sia vano il desiderare le cose,
vivere in funzione di esse, acquisirle, tenervisi stretti, allora
è vuota di desiderio, di voler essere, di acquisività, di
attaccamento. La mente è allora una mente vuota, sgombra,
ma non nel senso di essere vuota di contenuti. Tutti gli oggetti
vi sono presenti come al solito, e i processi del pensiero si svolgono
anch'essi come al solito, senza però che vi siano sottesi
l'acquisività e l'attaccamento all'idea di «io» e
«mio». La mente è priva di acquisività
e attaccamento, e perciò è detta una mente vuota, o
sgombra.
È detto nei testi: «Una mente si dice vuota quando
è vuota di desiderio, avversione, illusione (raga, dosa,
moha)». Anche il mondo è descritto come vuoto,
poiché è vuoto di qualsiasi cosa che potrebbe essere
identificata come «io» o «mio». È
in questo senso che si parla del mondo come vuoto.
«Vuoto» nel linguaggio del Dhamma non significa vuoto
fisicamente, privo di contenuti. Vedete la confusione e i
fraintendimenti che possono nascere se queste parole sono prese nel
loro significato quotidiano. Se non comprendiamo il linguaggio
del Dhamma, non potermo mai comprendere il Dhamma; e il termine del
linguaggio del Dhamma più importante da capire è quello
di «nascita».
Il genere di nascita che per noi costituisce un problema è la
nascita mentale, il nascere o sorgere della falsa nozione di
«io». Una volta sorta l'idea «io»,
inevitabilmente segue l'idea «io sono così e
così». Per esempio, «io sono un uomo»,
«io sono una creatura vivente», «io sono un uomo
buono», «io non sono un uomo buono», o qualche
cos'altro del genere. E una volta che è sorta l'idea
«io sono così e così», la segue l'idea di
confronto: «io sono migliore di Tizio», «io sono
inferiore a Tizio», «io sono come Tizio».
Queste idee sono tutte di un tipo; tutte rientrano nella falsa nozione
«io sono», «io esisto». È a questo
che il termine «nascita» si riferisce. Perciò
in un giorno solo possiamo nascere molte volte, dozzine e dozzine di
volte. Anche in un'ora possiamo nascere e nascere, tante
volte. Ogni volta che vengono in essere l'idea «io» e
l'idea «io sono così e così», quella è
una nascita. Quando un'idea del genere non sorge, non c'è
nascita, e questa assenza di nascita è uno stato di quiete.
Questo è un principio da mettere bene a fuoco: ogni volta che
nasce l'idea «io», «mio», in quel momento viene
in essere nella mente il ciclo del samsara, e ci sono sofferenza,
struggimento, agitazione; e ogni volta che si è liberi da questo
genere di imperfezioni c'è il nibbana, il nibbana del tipo
chiamato tadanga-nibbana o vikkhambhana-nibbana.
Il nibbana momentaneo
Il tadanga-nibbana è menzionato nell'Anguttara-Nikaya.
È uno stato che si realizza momentaneamente, quando si dà
il caso che le condizioni esterne sono tali che non sorge alcuna idea
di «io» o «mio». Il tadanga-nibbana
è una cessazione momentanea dell'idea «io»,
«mio», dovuta a circostanze esterne favorevoli. A un
livello superiore, se ci impegniamo in una qualche forma di pratica del
Dhamma, in particolare se sviluppiamo la concentrazione così che
l'idea «io», «mio» non può sorgere,
quella estinzione di «io», «mio» è
chiamata vikkhambhana-nibbana. E infine, quando riusciamo a
realizzare l'eliminazione completa di tutte le impurità, quello
è nibbana pieno, nibbana totale.
Limitiamo adesso la nostra discussione alla vita quotidiana della
gente. Ci si deve rendere conto che ogni volta che c'è
l'idea «io», «mio», ci sono nascita,
sofferenza, il ciclo del samsara. L'«io» nasce, dura
un momento, quindi cessa; nasce di nuovo, dura un momento, e nuovamente
cessa - e questo è il motivo per il quale ci si riferisce a
questo processo come il ciclo del samsara. È sofferenza
perché c'è nascita dell'«io». Se in
qualche momento succede che le condizioni sono favorevoli,
cosicché non nasce l'idea «io», allora c'è
pace - ed è chiamata tadanga-nibbana, nibbana momentaneo, un
assaggio di nibbana, un che di nibbana, pace, quiete.
Il significato di «nibbana» si fa più chiaro quando
consideriamo come la parola è usata nell'Anguttara Nikaya.
In quel testo troviamo che di oggetti caldi divenuti freddi si dice che
si sono «nibbanati». Di animali che sono stati
domati, resi docili e inoffensivi si dice che sono stati
«nibbanati». Come può divenire
«quieto» un essere umano? La questione è complicata
dal fatto che l'attuale conoscenza e comprensione della vita l'uomo non
le ha acquisite tutte insieme; queste si sono sviluppate gradualmente,
in un lungo periodo.
Parecchio tempo prima del Buddha, la gente riteneva che il nibbana
fosse nel piacere sensuale, perché chi si procura tutti i
piaceri sensuali che vuole, effettivamente prova una certa
quiete. Una doccia in un giorno caldo dà un certo
rilassamento; ritirarsi in un posto silenzioso fa provare una quiete di
genere diverso, in termini di appagamento, di assenza di motivi di
turbamento. Perciò anzitutto la gente era interessata a
quel genere di nibbana che consiste in un'abbondanza di piacere
sensuale.
In seguito, uomini di saggezza maggiore si resero conto di come
ciò fosse insoddisfacente. Videro come il piacere sensuale
fosse in gran parte illusorio (maya) e cercarono la quiete nella
tranquillità mentale della concentrazione (jhana). I jhana
sono stati di autentica quiete della mente, e questo era il genere di
nibbana al quale la gente era interessata nel periodo immediatamente
precedente l'illuminazione del Buddha. I guru insegnavano che il
nibbana coincideva con lo stato di concentrazione mentale più
raffinato.
L'ultimo guru del Buddha, Udakatapasa Ramaputra, gli insegnò che
raggiungere il «jhana di né percezione né non
percezione» (n'eva sañña
n'asaññayatana) era raggiungere la completa cessazione
della sofferenza. Il Buddha però non accolse questo
insegnamento; non ritenne che si trattasse del nibbana autentico.
Andò avanti da solo e analizzò a fondo la questione,
finché non raggiunse quel nibbana che è la totale
eliminazione di ogni specie di brama e di attaccamento.
Come lui stesso in seguito insegnò: «La vera
felicità consiste nell'estirpare la falsa idea
"io"». Quando le impurità sono state totalmente
eliminate, quello è il nibbana. Se le impurità sono
assenti soltanto momentaneamente, è un nibbana momentaneo.
Di qui l'insegnamento, che abbiamo già discusso, del
tadanga-nibbana e del vikkhambhana-nibbana. Questi termini
denotano una condizione di assenza di impurità.
Ora, se esaminiamo noi stessi, scopriamo che non siamo sempre dominati
dalle impurità; ci sono momenti in cui ne siamo liberi. Se
non fosse così, in breve le impurità ci farebbero
impazzire e moriremmo, non rimarrebbe molta gente al mondo.
È grazie a questi brevi periodi in cui siamo liberi dalle
impurità che ci affliggono che non soffriamo tutti di turbe
nervose e diveniamo pazzi o moriamo. Apprezziamo la Natura per
questo, e sentiamoci grati perché ci ha fatti in modo da avere
ogni giorno un periodo sufficiente di sollievo dalle
impurità. C'è il tempo in cui dormiamo, e ci sono
periodi in cui la mente è chiara, quieta, in pace.
Una persona che riesce ad agire secondo il disegno della Natura
può evitare disturbi nervosi e psicologici; chi non ce la fa
è destinato ad avere sempre più turbe nervose, fino alla
malattia mentale o anche alla morte. Siamo grati per il nibbana
momentaneo, quel genere di nibbana effimero che si dà quando le
condizioni sono favorevoli. Per un breve momento siamo liberi
dalla brama, dalla presunzione, e dalle false idee, in particolare da
quella di «io» e «mio». La mente è
vuota, libera, per il tempo sufficiente per riposare un po' o per
dormire, e così rimane sana.
La consapevolezza
In passato questa condizione era più comune di quanto non lo sia
ora. L'uomo moderno, con l'incessante cambiamento delle sue
conoscenze e del suo comportamento, è più soggetto a
risentire delle impurità rispetto all'uomo del passato.
Perciò l'uomo moderno va più soggetto alle
infermità nervose e psicologiche; è una condizione
disgraziata. Quanta più conoscenza scientifica ha, tanto
maggiore è la sua vulnerabilità alla malattia mentale! Il
numero delle persone che hanno problemi psichici cresce così
rapidamente da mettere in crisi gli ospedali.
La causa è semplice, e una: la gente non sa far riposare la
mente. È troppo ambiziosa. Fin dalla più
tenera infanzia le è stato insegnato ad essere ambiziosa.
Proprio nell'infanzia contrae disturbi nervosi, e al completamento
degli studî ha già problemi mentali. Questo deriva
dal non interessarsi dell'insegnamento del Buddha per il quale la
nascita dell'idea di «io» e «mio» è il
massimo della sofferenza.
Ora andiamo avanti con la questione «nascita».
Indipendentemente dal genere di esistenza nel quale si è nati,
nascita non è altro che sofferenza; il termine
«nascita» qui denota attaccamento non accompagnato da
consapevolezza. Questo è un punto importante, che va
compreso bene: se nella mente di una pesona sorge l'idea «io sono
così e così», e la persona è consapevole del
sorgere di questa idea, quel sorgere non è una nascita nel senso
che la parola ha nel linguaggio del Dhamma. Se invece la persona
illusoriamente si identifica con l'idea, quella è una nascita.
Per questo il Buddha richiama l'importanza di una continua presenza
mentale. Se sappiamo chi siamo, ciò che dobbiamo fare, e
lo facciamo consapevolmente, non c'è sofferenza, perché
non c'è nascita di «io» o «mio».
Ogni volta che vengono in essere illusioni, sconsideratezza,
negligenza, sorgono il desiderio e l'attaccamento alla falsa idea
«io», «mio», «io sono Tizio»,
«io sono così e così», ... e questa è
nascita.
Nascita è sofferenza, e il genere di sofferenza dipende dal
genere di nascita. La nascita come madre comporta il soffrire
come madre, la nascita come padre comporta il sofferire come
padre. Ad esempio, se in una persona sorge l'idea illusoria di
essere una madre, e in conseguenza di volere questo, quello,
quell'altro ancora, questo è il soffrire come madre. Lo
stesso per un padre. Se si identifica con l'idea di essere un
padre, che vuole questo, che vuole quello, che è acquisitivo,
che vuole tenersi le cose bene strette, questo è il soffrire
come padre.
Ma se uno è consapevole, non ci sono questa distorsione e
confusione; semplicemente, egli sa, con piena chiarezza, cosa deve fare
come padre o come madre, e lo fa con mente calma e ferma, senza
attaccamento all'idea «io sono questo», «io sono
quello». Così è libero dalla sofferenza, e in
questa condizione è effettivamente in grado di far crescere i
suoi figli in modo appropriato e con il massimo vantaggio per
loro. La nascita come madre comporta il soffrire come madre; la
nascita come padre comporta il soffrire come padre; la nascita come
milionario comporta il soffrire come milionario; la nascita come
mendicante comporta il soffrire come mendicante. Quello che si
intende con quanto si è detto può essere illustrato dal
confronto seguente.
Identificazione con
l'«io-mio»
Pensiamo dapprima a un milionario, dominato da illusioni, da desiderio,
da attaccamento, che è aggrappato all'idea «io sono un
milionario». Questa idea è di per se stessa
sofferenza; qualsiasi cosa sia fatta o detta da quell'uomo, lo è
sotto l'influsso di queste impurità, e diviene pertanto ragione
di ulteriore sofferenza. Anche dopo essere andato a letto, egli
indugia nell'idea di essere un milionario, e non riesce a
dormire. Così la nascita come milionario comporta la
sofferenza come milionario.
Pensiamo adesso a un mendicante; nella sua mente occupano molto spazio
le sue disgrazie, la sua povertà, i suoi patimenti, le sue
difficoltà - è il soffrire di un mendicante. Ora,
se in un qualche momento uno dei due uomini fosse libero da queste
idee, in quel momento sarebbe libero dalla sofferenza; il milionario
sarebbe libero dalla sofferenza come milionario, il mendicante sarebbe
libero dalla sofferenza come mendicante. Succede così che
a volte si vede un mendicante che canta spensierato, perché in
quel momento non nasce come mendicante, non si identifica con l'essere
un mendicante o con una qualsiasi difficoltà. Per un
momento lo ha dimenticato, non è più nato come
mendicante, è nato come uno che canta, o che suona.
Pensiamo a un misero barcaiolo. Se si fissa nell'idea di essere
povero, e rema sul suo traghetto con un senso di insofferenza e di
autocommiserazione, ecco che soffre, proprio come se fosse finito
dritto all'inferno. Però, se invece di dare tanto spazio a
queste idee riflettesse che sta facendo quello che deve fare, che il
lavoro è la sorte degli esseri umani, e facesse il suo lavoro
con consapevolezza e con mente tranquilla e ferma, si troverebbe a
cantare mentre rema sul traghetto.
Analizzate minutamente, con
cura, in modo netto questa domanda: a che cosa ci si riferiva con il
termine «nascita» in quello che si è detto? Se in un
dato momento un milionario «nasce» come milionario, in quel
momento prova la sofferenza di un milionario; se un mendicante nasce
come mendicante, prova la sofferenza di un mendicante.
Però, se uno non si identifica nel modo che si è detto,
non «nasce», e perciò è libero dalla
sofferenza, sia egli un milionario, un mendicante, un barcaiolo, o quel
che sia. Al giorno d'oggi non siamo interessati a questo genere
di questioni. Ci facciamo sopraffare da illusioni, da brama, da
attaccamento. Nasciamo come questo, quello, quell'altro, non so
quante volte al giorno. Ogni genere di nascita, senza eccezioni,
è sofferenza, come ha detto il Buddha. L'unico modo di
essere liberi dalla sofferenza è quello di essere liberi dal
nascere. Perciò bisogna essere accurati, tenere sempre la
mente sveglia e penetrante, non disturbata e confusa da
«io» e «mio». Allora si sarà
liberi dalla sofferenza. Che si sia un agricoltore, o un
commerciante, o un soldato, o un impiegato statale, o qualsiasi altra
cosa, anche un dio in cielo, si sarà liberi dalla
sofferenza.
Non appena c'è l'idea «io»,
c'è sofferenza. Afferrate questo importante principio, e
siete in condizione di comprendere il punto essenziale del Buddhismo, e
di ottenere beneficio dal Buddhismo; di trarre pienamente profitto
dall'essere nati esseri umani e dall'aver incontrato il
Buddhismo. Se non lo afferrate, non ne otterrete alcun beneficio,
anche se siete un buddhista; sarete un buddhista soltanto di nome,
soltanto in senso anagrafico; dovrete starvene giù a piangere
come tutti quelli che non sono buddhisti; continuerete a provare
sofferenza come chi non è buddhista. Per essere
autenticamente buddhisti dobbiamo praticare l'autentico insegnamento
del Buddha, in particolare il precetto: «Non immedesimatevi
nell'"io" o "mio"; agite con chiara consapevolezza e non ci sarà
sofferenza». Allora potrete fare il vostro lavoro bene, e
quel lavoro sarà un piacere. Quando la mente è
presa nell'«io» e «mio», ogni lavoro diviene
pesante, opprimente in ogni senso. Ma se la mente non si tiene
stretta all'idea «io», «mio», se è
sveglia, ogni lavoro, anche pesante o umile, è piacevole.
Il samsara
Questa è una verità profonda, riposta, che va
compresa. La sua essenza è in una parola:
«nascita». Nascita è sofferenza: ogni volta
che riusciamo a smettere di nascere, siamo liberi dalla
sofferenza. Quante volte in un giorno una persona esperimenta la
nascita, tante volte in quel giorno dovrà provare sofferenza; se
non sperimenta affatto la nascita, non dovrà soffrire
affatto. Così la pratica diretta del Dhamma, il nucleo
dell'insegnamento del Buddha, consiste nel mantenere una vigilanza
attenta sulla mente, affinché questa non dia luogo alla
condizione chiamata il ciclo del samsara, e sia sempre nello stato
chiamato nibbana. Si deve essere attenti, e custodire la mente in
ogni momento, così che vi sia un costante stato di quiete, e non
rimanga alcuna possibilità per il verificarsi del samsara.
Alla mente diverrà familiare giorno e notte lo stato di nibbana;
questo stato può divenire permanente e completo. Un
nibbana momentaneo lo abbiamo già, si verifica quando le
circostanze sono favorevoli; è un assaggio, un anticipo di
nibbana. Conservatelo con cura; non lasciate nessuno spazio
aperto al samsara, all'idea di «io», di
«mio». Non fate nascere l'idea
«io». Siate vigili, consapevoli, sviluppate la
capacità di penetrare nel profondo. Qualsiasi cosa
facciate, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, fatela
consapevolmente. Non fatevi prendere dall'«io» e dal
«mio». Allora il samsara non può nascere; la
mente rimane nel nibbana finché ha piena familiarità con
esso, e non può tornare indietro; questo è il nibbana
pieno, o completo.
Fin dall'infanzia viviamo in un modo che
favorisce la nascita dell'«io» e del «mio», e
siamo abituati al ciclo del samsara. È una condizione
difficile da infrangere. È divenuta parte di noi stessi, e
per questo a volte se ne parla in termini di «legami»
(samyojana) o di «disposizioni latenti» (anusaya), qualcosa
che è intimamente connesso alla nostra natura. Questi
termini si riferiscono alla consuetudine di far nascere
l'«io», il «mio», di dar corpo al senso
dell'«io», del «mio». In una forma si
chiama avidità (lobha); in un'altra forma è chiamata
avversione (krodha); in un'altra ancora illusione (moha).
Qualsiasi forma prenda, si tratta semplicemente dell'idea di
«io», «mio»; autoriferimento. Quando
l'«io» vuole ottenere qualcosa, c'è avidità;
quando non lo ottiene, c'è avversione; quando esita e non sa che
cosa vuole, c'è confusione, fissazione su speranze e
eventualità. Avidità, avversione e fissazione di
qualsiasi genere sono semplicemente forme dell'idea «io», e
quando sono presenti nella mente è il samsara perenne, la totale
assenza del nibbana. In queste condizioni una persona non vive a
lungo. Però viene in aiuto la Natura: come abbiamo visto
all'inizio, il processo a volte si arresta da solo, per naturale
stanchezza, e ci si addormenta, o si ha un po' di respiro in qualche
altra forma; la situazione migliora, si fa più sopportabile, e
si evita la morte.
Il «retto vivere»
I varî esseri illuminati che sono apparsi al mondo hanno scoperto
che è
possibile prolungare questi periodi di nibbana, e hanno insegnato la
forma di
pratica più diretta per ottenerlo: il Nobile Ottuplice
Sentiero. È una pratica
intesa a prolungare i periodi di quiete, o nibbana, e a ridurre i
periodi di
sofferenza, o samsara, impedendo per quanto possibile la nascita
dell'«io» e del
«mio». È tanto semplice quanto difficile a
capirsi - come l'affermazione del
Buddha: «Se i monaci praticheranno il retto vivere, il mondo non
sarà privo di
arhat (esseri illuminati)». (Sace me bhikkhu samma
vihareyyum asuñño loko
arahantehi assa). Lo si trova difficile da credere.
Però, se lo si analizza, non
si può fare a meno di crederci. Nella semplice
affermazione: «Se i monaci praticheranno il retto vivere, il
mondo non sarà privo di arhat», l'espressione «retto
vivere» ha un significato
importante e profondo. Retto vivere implica l'assenza dell'idea
di «io», «mio». Noi viviamo alla
giornata, ma non viviamo rettamente, e così nasce l'idea di
«io» e «mio». Viene fuori ogni giorno,
ripetutamente, così che il nibbana non
ha possibilità di avere luogo, e non diventiamo arhat.
Retto vivere vuol dire vivere secondo il Nobile Ottuplice Sentiero:
retta
comprensione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retti mezzi
di
sussistenza, retto sforzo, retta consapevolezza, e retta
concentrazione. Se
abbiamo questi otto generi di perfezione, stiamo praticando il retto
vivere. E se viviamo rettamente in questo senso, le
impurità mentali non possono venire
in essere, «io» e «mio» non possono nascere;
vengono meno, come un animale che
sia privato del cibo. Il retto vivere sottrae l'alimento
all'«io» e al «mio»,
e un giorno infine si inaridiscono del tutto e scompaiono
definitivamente, e
questo si chiama raggiungere il Frutto del Sentiero, il nibbana
totale.
L'importante è la continuità nella retta
comprensione e nella retta azione, così
che «io» e «mio» non possano sorgere, non vi
sia nascita. Quando non c'è nascita
di nessun genere, non c'è sofferenza di nessun genere, e quella
è vera felicità,
come ha detto il Buddha. Una volta che si sia esaminata la
questione e si sia arrivati a rendersi conto
che nascita è sempre sofferenza, senza eccezione, si fa
accuratamente attenzione
a evitare la nascita. È facile capire che la nascita alla
quale ci si riferisce
è qualcosa di mentale, qualcosa della mente; è molto
difficile però
controllarla. In un giorno, anche in un'ora, di questo genere di
nascita si può
fare l'esperienza molte e molte volte.
State attenti a questo
problema della nascita: è un problema che ci troviamo di
fronte qui e ora. Se possiamo essere padroni di questo genere di
nascita qui e
ora, potremo esserlo anche della nascita che segue la morte
fisica. Perciò non
preoccupiamoci della nascita che viene dopo la morte fisica,
preoccupiamoci
piuttosto con serietà della nascita che viene prima della morte
fisica, il
genere di nascita che ha luogo quando siamo vivi, che si dà
molte e molte volte
ogni giorno; impariamo a controllarla, e il problema sarà
eliminato. Se la
nascita può essere eliminata adesso, in questa vita, questa
sarà la fine
definitiva della nascita.
Gli otto tipi di rinascita
Tutti ci preoccupiamo della banale questione della forma nella quale
rinasceremo
dopo la morte, ci chiediamo in quale degli otto mondi dell'esistenza
rinasceremo: se come essere infernale, animale, preta (spirito avido),
asura
(spirito pauroso), essere umano, divinità del paradiso dei sensi
(kamavacara),
brahma incarnato, o brahma incorporeo. Ognuna di queste possibili
forme di
rinascita fa capo o ai Sugati o ai Duggati, secondo la natura delle
sensazioni
corrispondenti. Gli stati desiderabili, o appaganti, sono
chiamati Sugati;
quelli di tipo contrario sono chiamati Duggati.
Questa
però non è la dottrina insegnata dal Buddha. Il suo
insegnamento è stato:
«dove c'è nascita non c'è che sofferenza
perpetua»; ed è così indipendentemente
dal mondo nel quale si nasce, perché «nascita» si
riferisce ad acquisività ed
attaccamento, come già detto. Indipendentemente dalla
forma in cui si nasce, c'è
sofferenza. La forma della sofferenza può essere diversa,
come nel caso del
milionario e del mendicante, ma è pur sempre sofferenza, dura
come quella dei
mondi dei Duggati. La nascita nei mondi dei Duggati comporta le
sofferenze dei
mondi dei Duggati, la nascita nei mondi dei Sugati comporta le
sofferenze dei
mondi dei Sugati. La nascita deve essere arrestata
completamente.
Non state a chiedervi come rinascerete, a pensare
di rinascere come essere
umano, o come divinità, o come brahma. Il risultato
sarà la sofferenza di un
essere umano, di una divinità, o di un brahma, perché
finanche i brahma provano
sofferenza, la sofferenza dei brahma. Se i brahma ne fossero
liberi, non ci
sarebbe alcun bisogno del buddhismo. Il buddhismo è venuto
in essere al fine di
produrre arya, persone che hanno posto fine alle sofferenze di
qualsiasi genere,
a quelle degli esseri umani, delle divinità, e dei brahma.
Per questo motivo il
Buddha ha l'appellativo di «Maestro di dèi e di
uomini»: egli ha insegnato a
porre fine alla sofferenza per tutti gli esseri.
Qui bisogna
essere cauti. Una persona in questa particolare vita ha la
possibilità di rinascere in uno qualsiasi dei mondi
dell'esistenza nel vasto
ciclo del samsara: in uno dei mondi inferiori, o Duggati, come essere
infernale,
animale, preta, o asura; nel mondo di mezzo, come essere umano; oppure
in uno
dei mondi superiori, come divinità della sfera dei sensi, o come
brahma
incarnato, o (a livello più elevato) come brahma
incorporeo. Ci sono perciò otto
possibilità: i quattro stati dolorosi, o mondi inferiori, il
mondo umano, o
mondo di mezzo, e i tre stati celesti, o mondi superiori.
Ognuna
di queste otto forme di nascita è sofferenza, ciascuna nella sua
propria
particolare forma. Se ci si identifica con lo stato nel quale si
è nati,
inevitabilmente si proverà la sofferenza del genere
corrispondente - ed ognuno
di noi nella vita quotidiana ha sperimentato questi otto generi di
nascita. Cerchiamo di capire che cosa significa. Cominciamo
dalla nascita negli stati dolorosi, la nascita come essere infernale,
animale, preta (spirito avido), o asura (spirito pauroso).
Il
vero significato di «inferno» è ansia (letteralmente
«fuoco della mente»). L'ansia divora come il
fuoco. Se qualcuno ne è intriso, consumato, riconosciamo
in lui una creatura dell'inferno. Sia egli monaco, novizio,
converso,
capofamiglia o cos'altro, se è pervaso di ansia («fuoco
nella mente»), se si
strugge nelle implicazioni dell'«io» e del
«mio», egli è nell'inferno. Se in un dato
momento la mente di una persona è fissata su un'idea, in quel
momento la persona è un essere ottuso, un animale. Ogni
volta che la mente di
una persona, maschio o femmina, monaco o laico, o cos'altro, è
illusa, quella
persona nasce come animale. Il significato della nascita come
animale è
illusione.
Ogni volta che l'«io» e il
«mio» prendono la strada della fame e della sete
della mente, così come un giocatore o uno che compra biglietti
di una lotteria
provando bramosia per il denaro, bramosia di vincere un premio, una
bramosia
della mente - questo è nascita come preta (spirito avido).
Nascere come preta
è estrema avidità nella mente.
Se c'è paura,
timore, questo è nascere come asura (spirito pauroso). Il
termine «a-sura» significa «non coraggioso»; un
asura è una qualsiasi persona timorosa, facile a
spaventarsi. In un giorno solo possiamo nascere in tutti e
quattro questi stati. Fate attenzione! Notate in quale forma
sorgono l'«io» e il «mio». Se sorgono
nella forma dell'ansia, si nasce come essere dell'inferno; se in quella
della fissazione, come animale; se in quella della fame della mente,
come preta; e se sorgono nella forma della paura, si nasce come
asura. Mostriamolo con un esempio.
Uno scommettitore fa uno sbaglio grossolano e perde tutto; prova ansia,
come se un fuoco lo divorasse; è finito nell'inferno qui nella
casa da gioco. Di nuovo, quando si illude che il gioco può
risolvere i suoi problemi, è un essere ottuso, un animale -
anche prima di iniziare a giocare. Quando nel corso del gioco ha
una fame mentale incontrollabile, allora è un preta. E
quando ha paura di non vincere e di perdere tutto, è un
asura. Questo esempio da solo, il caso di un giocatore in una
casa da gioco, mostra come si può nascere come essere
dell'inferno, animale, preta, asura.
I nostri nonni erano saggî, altrimenti non avrebbero avuto il
detto: «Il paradiso è nel cuore, l'inferno nella
mente». Evidentemente i loro figlî e nipoti non sono
saggî, perché ritengono che si vada in
paradiso o all'inferno soltanto dopo morti, dopo essere stati deposti
nella bara. Esaminate questa idea, e vi renderete conto di come
sia poco saggia. Siamo intelligenti allora come i nostri nonni,
almeno limitatamente al renderci conto che il paradiso e l'inferno
stanno nella mente.
Pensate all'esempio del giocatore, che può divenire una creatura
dell'inferno, un animale, un preta, o un asura. L'ansia
può derivare dal non retto agire, o essere un risultato del
kamma. L'ansia è dolore. A volte l'illusione
può essere incredibilmente dolorosa. Pensateci bene;
analizzate e vedrete che qualche volta ci illudiamo in modo
incredibile. Questa illusione ci porta a una azione inadeguata, o
non retta. Quanto alla bramosia, è sempre presente: di
piacere, di notorietà, e così via.
Se arriva al punto di essere una arsura della mente, si diviene un
preta. Perché essere avidi? Abbiamo abbastanza
intelligenza per sapere che cosa dobbiamo fare; dunque facciamolo e
siamone contenti, senza l'arsura che hanno i preta. Anche se
compriamo i biglietti di una lotteria, non è necessario farlo
con l'arsura dei preta. Possiamo comprare i nostri biglietti
semplicemente per divertimento, o possiamo pensare che in questo modo
contribuiamo a raccogliere fondi per lo sviluppo del paese. Non
è il caso di comprare i biglietti per avidità, come i
preta.
Se c'è consapevolezza, «io» e «mio» non
vengono in essere, e non si è avidi, non si è un
preta. Se la consapevolezza invece manca, si è avidi, si
è divenuti un preta, all'istante. Lo stesso è con
la paura. La paura può diventare un modo di essere.
Pensateci. Avere paura, come certa gente ha, finanche dei
lombrichi, delle lucertole, dei gechi e dei topi è un po'
troppo. Questa è una paura ingiustificata. Poi
c'è la paura degli spiriti, cose delle quali non può
essere dimostrata neanche la presenza. E qualcosa di cui certe
persone hanno molto timore è il Dhamma. Temono che il
praticarlo renderà la loro vita piatta e arida, che tale sia il
nibbana. Perciò hanno paura del Dhamma e del
nibbana. Persone del genere sono veri e proprî asura, nel
pieno senso del termine.
Passiamo ora al mondo degli esseri umani. Il termine
«essere umano» qui implica fatica, anche intensa, sudore
versato, durezza del lavoro, ottenere cibo e soddisfazione dei sensi
con il sudore della propria fronte. Non ha niente a che vedere
con ansia, illusione, e tutto il resto; è l'onesto scambiare il
sudore della propria fronte con ciò che si vuole ottenere.
Questo è il significato del termine «essere
umano». Non pensate che abbia qualcosa in comune con i
termini «creatura dell'inferno», «animale»,
«preta» e «asura»; questi si riferiscono a
qualcosa di molto inferiore. «Inferno» significa
ansia, «animale» significa fissazione, «preta»
significa avidità, «asura» significa paura.
«Essere umano» significa qualcosa di un genere del tutto
diverso. Significa semplicemente impegnarsi, perseverare,
lavorare per ottenere quello che si vuole in modo onesto e retto,
guadagnarlo col sudore della propria fronte. Questo è
proprio dell'essere umano. In breve, il significato di
«essere umano» è fatica, una condizione in cui la
fatica è consuetudine.
Al di sopra vi sono le
divinità del paradiso dei sensi (kamavacara). Queste sono
le divinità delle quali sentiamo dire che risiedono nei cieli,
che hanno angeli per servirle, e così via. Il riferimento
è a una condizione di libertà dalla fatica, e di
abbondanza di ogni piacere sensuale.
Più in alto ancora c'è lo stato delle persone ormai
insoddisfatte dei piaceri sensuali, che sono giunte a vederli come
qualcosa che contamina, e che vogliono essere pure, senza
contaminazioni. Questo è il cielo dei brahma incarnati
(rupabrahma), nel quale sussiste l'interesse alle cose materiali.
Più in alto ancora c'è il livello nel quale si
percepiscono l'impermanenza del proprio corpo, e l'estraneità
dell'interesse per esso; si preferirebbe non avere corpo del
tutto. Una persona che sente questo è detto brahma
incorporeo (arupabrahma).
Questi termini hanno un significato differente da quello dell'uso
quitidiano. Ad esempio l'inferno raffigurato nelle pitture murali
dei templi, con calderoni di rame, mari di acido, piogge di lance e di
spade, è una metafora: un'illustrazione in termini materiali di
stati mentali che sfuggono alla raffigurazione. È una
concreta illustrazione dell'ansia, dell'irrequietezza, («fuoco
della mente»). In modo analogo abbiamo rappresentazioni
fisiche dell'illusione, dell'avidità, della paura. E
parimenti il «mondo umano» è la condizione della
fatica; e il cielo dei kamavacara è completo appagamento dei
sensi; quando qualcuno, per via del suo denaro, potere, fortuna, o
qualsiasi altra cosa, ha conseguito l'appagamento nel piacere sensuale,
ed è libero dalla fatica, è una divinità nel regno
dei sensi, chiamato kamavacara. E un brahma incorporeo è
una persona che non è più soddisfatta di tutto questo,
che non ha più interesse alle cose materiali, e che gode
soltanto di ciò che è puro, di ciò che non
contamina.
Esaminiamo lo stato delle nostre menti. A volte siamo infatuati
del piacere sensuale, ma quando lo ripetiamo più e più
volte finiamo per stancarcene, e vogliamo una pausa. A volte
vogliamo giocare, o ci interessiamo ad altre cose materiali; quelle
cose non ci soddisfano, e cominciamo a pensare a cose non materiali,
come buona sorte, prestigio, notorietà. Mettiamola in
termini più semplici. Ci sono persone che hanno
un'infatuazione per il piacere sensuale, e altre che preferiscono
coltivare degli hobby, come il giardinaggio, o allevare pesci tropicali
o piccioni, e arrivano a farsene un'infatuazione. La mente
è soggetta a questi cambiamenti.
Ora, può accadere che una data persona a un dato momento arrivi
a vedere che tutte queste cose sono fonte di confusione e non reggono
il confronto con le cose mentali - pensieri e sogni
sull'eventualità di una buona sorte, sulla bellezza, o sul
prestigio e la notorietà, cose non materiali. Queste
varie condizioni differiscono fra di loro in modo considerevole;
costituiscono varî livelli. Il punto è che una
stessa persona può esperimentare tutti quanti questi otto generi
di nascita.
Prendete in esame voi stessi, e vedete per quanti stati diversi la
mente può passare. Un giorno uno può essere preso
dal piacere sensuale, per un'ora o lì intorno; poi può
andargli di interrompere e andare a fare sport o praticare qualche
hobby. Un'altra volta può avere voglia di un periodo di
pausa completa, senza disturbi. A volte deve essere un
«essere umano», lavorare per lunghe ore, stancarsi. E
a volte passa qualche minuto nella condizione dell'inferno (ansia); o
di un asura (paura). Ecco che una stessa persona può
sperimentare in uno stesso giorno più tipi di nascita; e in una
settimana può provarli tutti e otto. Può nascere in
uno degli stati dolorosi (inferno, animale, preta, asura), nel mondo
degli essere umani, o negli stati celesti degli dèi e dei
brahma. Però, quale ne sia il genere, la nascita non
è altro che sofferenza. Quest'ultima affermazione è
difficile da comprendere, ma una volta che la abbiate capita, avete
compreso l'intero insegnamento del Buddha.
Libertà dalla nascita
L'espressione «libertà dalla nascita» non implica
che non si rinasca dopo la
morte fisica, che dopo essere morti ed essere stati deposti nella bara
non si
rinasca. Pensateci: se nella routine quotidiana c'è
soltanto consapevolezza,
che impedisce il sorgere dell'«io» e del «mio»,
l'idea del «sé», l'egoismo -
questo è essere liberi dalla nascita.
Quando non rimane
altro che la consapevolezza, si è in grado di fare ciò
che si
deve fare, e di farlo come si deve. In una situazione del genere
fare il proprio
lavoro è un piacere; poter fare il proprio lavoro come si deve,
senza «io» o
«mio» di sorta, è una gioia. Questa è
l'essenza dell'insegnamento del Buddha. In
pratica ci dice di vivere con la mente libera dall'idea
dell'«io», «mio». Questo
insegnamento è presente in ogni religione; è basato su
una legge naturale, che
può essere dimostrata in modo rigoroso, scientificamente.
Il buddhismo insegna che se fra i nostri pensieri c'è l'idea del
sé, dell'
autoriferimento, quella è sofferenza. Il Cristianesimo
insegna la stessa cosa:
ci dice di non pensare in termini di «io» o
«mio», di non commettere l'errore di
identificarci con «io» o «mio». La
maggior parte dei cristiani però non
comprende questo insegnamento, proprio come la maggior parte di noi
buddhisti
non comprende l'insegnamento del Buddha al riguardo. È lo
stesso dappertutto e
in tutte le religioni: nessuno comprende la vera essenza della propria
religione. Noi buddhisti non capiamo cosa si intende con
«Non nascete! Cessate
di nascere!». Non lo capiamo, e così siamo
perplessi, non ci crediamo o
addirittura lo consideriamo un insegnamento sbagliato. Forse non
arriviamo ad
accusare il Buddha di insegnare una falsa dottrina, però
nonostante tutto quell'
idea ci rimane in mente; oppure possiamo pensare che un monaco che
espone quella
dottrina stia travisando il Buddha. Questo succede.
Così non riusciamo proprio a
capire la dottrina dell'anatta (non sé) e della
suññata (vuoto), la dottrina per
cui non c'è «io» o «mio». Di
conseguenza soffriamo. Nasciamo spesso;
esperimentiamo più samsara che nibbana.
La dimostrazione
di tutto questo è il fatto che gli ospedali per le malattie
nervose e mentali sono sovraffollati. Questa è la
dimostrazione, e ce n'è a
sufficienza, non abbiamo da chiederne di ulteriori. La gente
semplicemente non
capisce la verità sul come impedire l'infermità
mentale. Questo è l'obiettivo
dell'insegnamento del Buddha. Il Buddha aveva per fine una vita
consapevole, di
consapevolezza continua, il vedere il mondo vuoto di «io» e
«mio», mantenere la
mente sempre libera dall'idea «io», «mio»,
lasciando soltanto la consapevolezza,
così da sapere quale sia il proprio dovere, e così
farlo. Questa è l'essenza
dell'insegnamento del Buddha; a parte questo, non c'è altro.
L'essenza della religione
Adesso vorrei dire qualcosa su un insegnamento del Cristianesimo per il
quale i
cristiani stessi non hanno interesse. È un passo del Nuovo
Testamento, dall'
epistola ai Corinti, nel quale San Paolo riassume l'intero insegnamento
di Gesù. È un breve passo che contiene
un'esortazione al popolo di Corinto:
Se hai moglie, pensa come se non avessi moglie.
Se possiedi ricchezze, pensa come se non avessi
alcuna ricchezza. Se stai soffrendo, pensa come
se non stessi soffrendo. Se sei felice, pensa
come se non fossi felice. Se vai al mercato per
fare i tuoi acquisti, non portare nulla a casa.
[Prima epistola ai Corinti, 7, 29-30. (N.d.T.)]
Qui abbiamo l'essenza dell'insegnamento del Buddha nella Bibbia:
«Se hai moglie, pensa come se non avessi moglie».
Paolo si
rivolge agli uomini; non dice esplicitamente che una donna che ha
marito
dovrebbe pensare come se non avesse marito, ma si intende che
l'affermazione
vale sia per la moglie che per il marito. Il significato
è: «Non
nutrire acquisività, attaccamento; non identificatevi con il
"mio"».
Se possedete ricchezze, non siatevi attaccati, pensando ad esse come
alle vostre
ricchezze; pensate di non averne in realtà. Se sorge una
sofferenza,
prendetela per quale è, e se ne andrà. Non pensate
ad essa
in termini di sofferenza vostra. Se avete un motivo di
felicità,
non consideratelo il vostro motivo di felicità. Se andate
a fare
acquisti al mercato, non riportate niente a casa. Questo vuol
dire:
portando i nostri acquisti a casa dal mercato, la nostra mente non li
identifica
come «nostri». In questo senso non riportiamo nulla a
casa.
Questo è un insegnamento cristiano, l'essenza del
Cristianesimo. Una
volta ho chiesto a un cristiano, una persona di elevata condizione
sociale, un
insegnante, in che modo avesse inteso il passo che abbiamo
citato.
Inizialmente non sapeva che dire, poi mi ha risposto: «Non gli ho
mai
prestato interesse». Non aveva mai avuto alcun interesse
per questo
passo della Bibbia perché lo riteneva senza importanza.
Aveva
prestato grande interesse alla questione della fede, eccetera, ma
nessun
interesse a questa questione, che è la più importante di
tutte.
Ogni religione degna di questo nome tende fondamentalmente a
insegnare a essere liberi dall'autoriferimento. In ogni religione
c'è l'importante insegnamento della libertà dal sé
e
dalla preoccupazione per il sé. I fedeli però non
hanno
interesse per questo insegnamento. Sono come noi buddhisti, che
non
prestiamo interesse alla dottrina della suññata e
dell'anatta,
la dottrina che caratterizza il buddhismo.
Mara
Possiamo
dire allora così, che la gente non ha interesse per la cosa che
è
più importante per essa. La gente è interessata
soltanto al
chiacchiericcio e al mangiare, modi di passare il tempo incentrati sul
sé,
che alimentano l'«io» e il «mio». Di
conseguenza le
persone sono più spesso creature dell'inferno, animali, preta e
asura che
esseri umani. E quando sono esseri umani, faticano e sono in
tensione in
modo particolarmente eccessivo, perché non sanno
rilassarsi. Se sono
in uno dei mondi celesti, esperimentano il genere di sofferenza
corrispondente -
come divinità, come brahma, o che sia. Questo
perché non
capiscono. Sono caduti sotto l'infuenza di Mara; sono stati
attratti sulla
via di Mara anziché sulla via del Buddha.
Mara è un'altra
delle cose delle quali non abbiamo una comprensione appropriata.
In
realtà Mara denota tutte quelle cose affascinanti che attraggono
la
mente e la riducono in loro potere. Mara è queste cose, in
particolare il piacere sessuale e gli altri piaceri dei sensi. Il
comandante supremo di Mara ci attira nel regno celeste dei
paranimmitava-savattî, il mondo nel quale abbondano le delizie
dei sensi,
dove poi altri subalterni di Mara si pongono al nostro servizio, ci
servono, e
si occupano di ogni nostra esigenza. Questo si intende con
«il
comandante supremo di Mara».
Ora noi siamo vittime di Mara
perché desideriamo queste cose e pertanto alimentiamo
l'«io»
e il «mio». Una volta che «io» e
«mio»
siano venuti in essere, non c'è più fine; si è al
seguito
di Mara anziché al seguito del Buddha. Quanto a Mara,
è
tutto qui. Ogni qualvolta che nella mente esiste l'idea
«io»,
«mio», Mara è presente, si è al suo
comando. E
ogni qualvolta che la mente è vuota di «io»,
«mio», si segue il Buddha. In uno stesso giorno si
può
essere per un po' al comando di Mara e per un po' al seguito del
Buddha.
Chiunque può rendersene conto, non c'è bisogno
perciò di
discuterne qui. Chiunque può vedere da solo che in uno
stesso
giorno per un po' può esservi la presenza di «io» e
«mio», e per un po' l'assenza.
In qualunque momento in cui
sorgono «io» e «mio», si è nati come
questo o
come quello, e con questo o con quello ci si identifica; ed è
sofferenza, ogni volta. Dovremmo evitarlo, e fare qualcosa per
impedirne
il verificarsi. Dobbiamo alimentare e prolungare quei periodi di
vuoto e
di quiete, o nibbana; dopo un certo tempo saremo liberi da tutte le
infermità, sia mentali che fisiche.
Diabete, ipertensione
arteriosa, disturbi cardiaci - vengono tutti da «io» e
«mio». Identificarsi con «io» e
«mio»
causa una quantità di turbamenti che ci impediscono di riposare
a
sufficienza. Quando la mente è confusa, il metabolismo
degli
zuccheri diviene anormale, con forti aumenti e diminuzioni, e con il
risultato
di una qualche malattia fisica. Ne deriva anche infermità
mentale,
nella forma della sofferenza mentale. In breve, il corpo non
regge la
tensione e il risultato è una malattia nervosa o mentale, o
anche la
morte. Anche se si può sfuggire alla morte, è certo
che
si proveranno profonda sofferenza e depressione, come se si fosse
finiti in
uno dei mondi infernali.
L'intera questione potrebbe essere trattata in
modo molto più particolareggiato. Ad esempio, abbiamo
parlato di
inferno come equivalente di ansia, anche se i testi più
analitici
distinguono diciotto o ventuno o più ancora regioni nell'
inferno.
In ultima analisi però, in tutte è presente la sofferenza
del
non avere requie; non c'è condizione infernale in cui ci sia
quiete. Lo stesso per i preta. Si distinguono più
tipi di
preta: preta-serpenti, preta con bocche dalle dimensioni di una cruna
d'ago e
ventri dalle dimensioni di una montagna (perciò non possono mai
saziare
la loro avidità) e altri. Ma tutti fanno capo alla stessa
cosa:
avidità.
Potete interpretare tutti questi particolari come
credete, in modo più o meno analitico, purché
comprendiate il
significato fondamentale: le creature dell' inferno patiscono per
l'ansia, la
condizione degli animali è l'oscurità mentale, quella dei
preta
l'avidità, quella degli asura la paura, quella degli esseri
umani la
fatica, quella delle divinità dei kamavacara l'infatuazione per
i
piaceri sensuali, quella dei brahma incarnati l'infatuazione esclusiva
per le
cose fisiche, e quella dei brahma incorporei l'infatuazione esclusiva
per le
cose mentali. Sono tutte forme di «nascita».
Non ci
sono eccezioni, chi è «nato» è certo di
soffrire. Cercate di abbandonare completamente questa
identificazione. «La vera felicità consiste
nell'eliminare
la falsa idea "io"». Mantenetevi consapevoli e capaci di
vedere
nel profondo; siate liberi da «io» e «mio» e
sarete
liberi dalla sofferenza. Mantenete questa condizione; quando essa
diviene permanente, quello è l'autentico e completo nibbana.
Il nibbana in vita
Il nibbana momentaneo lo abbiamo già. Prolunghiamolo, e
riduciamo la sofferenza, o samsara, per quanto possibile. Non
sprechiamo
questa opportunità, questi ottanta o cento anni di vita in cui
siamo
nati. Se non concretiamo questo perfezionamento non arriveremo
mai in
nessun posto, dovessimo vivere anche mille anni; ma se effettivamente
lo
realizziamo, possiamo giungere pienamente al nibbana già in
questa
vita.
Che uno sia bambino, adolescente, adulto o ottantenne, se intende
a dovere il significato di tutto questo, il sorgere e il cessare della
sofferenza, sarà in grado di guarire sul serio dalle sue
infermità, di controllare l' autoriferimento, l'«io»
e il
«mio»; automaticamente ne avrà abbastanza, e
inizierà a esperimentare la quiete, la felicità,
l'affrancamento
dalla sofferenza. Sta tutto qui.
Il Buddha lo ha espresso
sinteticamente quando ha detto: «Non siate acquisitivi, non
attaccatevi
a niente, a nessuna cosa (Sabbe dhamma nalam abhinivesaya)»; vale
a dire,
non attaccatevi in termini di «io»,
«mio».
Indipendentemente da quello che la cosa è - oggetto fisico,
condizione,
azione, oggetto mentale, risultato di un'azione o quel che sia - non
pensateci
in termini di «io», «mio». Pensate che fa
parte
della Natura, che è la Natura stessa, che ne è una parte
e che
segue le sue leggi, che è proprietà della Natura.
Non
consideratela in termini di «io», «mio».
Chiunque
abbia la sicumera di considerarla tale è un ladro, si appropria
di
qualcosa che giustamente appartiene alla Natura. Dal rubare non
può
derivare nulla di buono; inevitabilmente ne verrà la sofferenza
di un
ladro. Di qui l'insegnamento del Buddha di non essere
acquisitivi, di non
attaccarsi a nulla come «io» o «mio». Di
qui
ancora la sua affermazione, tanto stringata che è difficile
comprenderla
e più difficile ancora accettarla: «Se sarà
praticato il
retto vivere, questo mondo non sarà vuoto di arhat».
Questa
affermazione riassume l'intero insegnamento.
Spero che vi interesserete a
questo insegnamento del Buddha, che ci rifletterete, lo esaminerete, e
che
arriverete a comprenderlo. È il nucleo profondo ed
essenziale del
Dhamma, e può davvero aiutarci a conseguire la liberazione dalla
sofferenza.
1)
Si confronti questa frase con la seguente del Meghiya sutta:
Chi è cosciente di ciò che non è il Sé
conquista l'annientamento della vanità
dell'idea "io sono" [Asmi-mâna-samugghâta]
in questa stessa vita, cioè conquista
l'estinzione [nibbâna].
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