Traduzione di Alessandro Selli dell'articolo originariamente sito in: http://www.buddhistethics.org/3/keown3.html,
ottenibile ora (aprile 2013) da: http://blogs.dickinson.edu/buddhistethics/files/2010/04/hallisey.pdf (file PDF)
e reperibile come pagina HTML anche in: http://www.urbandharma.org/udharma/suicide.html

Il buddhismo e il suicidio - il caso di Channa

Damien Keown - Università di Londra, Goldsmiths

  1. Introduzione

  2. Le visite ai malati

  3. Channa

  4. Il commentario

  5. Conclusione

  6. Note

Introduzione

❦❦❦

  Nel suo articolo del 1983: "Il problema del 'suicidio' nel canone pāli", Martin Wiltshire ha scritto: "L'argomento del suicidio è stato scelto non solo per il suo innegabile interesse intrinseco e storico, ma [anche] perché mette in luce certi problemi chiave nel campo dell'etica buddhista e della dottrina."1  Penso che il Wiltshire abbia ragione nell'identificare il suicidio come un problema importante nell'etica buddhista:2 solleva quesiti basilari sull'autonomia e il valore della vita umana e riveste un ruolo centrale per problemi correlati quali il suicidio assistito da un medico e l' eutanasia.

  Non affronterò nessuno di questi problemi in questa sede perché la priorità è qui l'affrontare il "problema" specifico che il Wiltshire ha identificato col titolo del suo articolo ossia che il suicidio sembra essere considerato con ambivalenza nel canone Pali.  Il Wiltshire ha scritto nel paragrafo d' apertura: "Dovremmo forse mettere in risalto come il suicidio ci si presenti come un oggetto di ricerca accattivante quando si scopre quanto sembri considerato in modo equivoco nel canone, di come fosse sia censurato che condonato."  L'idea che il suicidio sia considerato in modo equivoco nel canone risale almeno agli anni 20.  Nella sua voce sul suicidio nell'"Enciclopedia della religione e dell'etica" de La Vallee Poussin scrisse:

Abbiamo quindi buone ragioni di credere (1) che il suicidio non sia una pratica ascetica che conduca al progresso spirituale e al nirvāṇa e (2) che nessun santo o arhat - un essere spiritualmente perfetto - si ucciderebbe.  Però conosciamo un certo numero di storie che provano senza ombra di dubbio che ci si sbaglia in queste due importanti conclusioni.3

  Lo stesso anno F. L. Woodward espresse un'opinione simile:

Ci sono tuttavia dei brani nei Nikāya dove il Buddha approva il suicidio dei bhikkhu: ma in questi casi essi erano arahant e dobbiamo supporre che tali esseri che sono giunti all'autodominio possano fare come pare loro riguardo la vita o la morte delle loro carcasse.4

  Considerazioni di questo tipo hanno influenzato gli studiosi occidentali degli ultimi settant'anni.5  Di recente il Becker - al di là dell'evidenza contenuta nei testi - ha parlato di come il Buddha abbia "elogiato" il suicidio di Vakkali e Channa (1993:136) ed ha sostenuto l'esistenza di un "solido atteggiamento [permissivo] del buddhismo" (1993: 137) nei confronti del suicidio.

  Sono stati condotti varii tentativi, la maggior parte dei quali hanno ricalcato le stesse linee, per spiegare perché il suicidio sia proibito agli esseri non illuminati ma sia permesso agli esseri illuminati.  Nel 1965 il Lamotte ha scritto:

Una persona che si uccida in preda alla disperazione aspira ovviamente all'annichilazione: il suo suicidio, istigato dal desiderio, non gli risparmierà la fruizione [del frutto delle sue azioni precedenti] e dovrà [anzi] scontare il frutto di questa sua azione.  Nel caso di un essere ordinario il suicidio è una follia che non permetterà di conseguire lo scopo prefissato.

  Questa situazione è [quindi] confrontata con il caso del suicidio di un essere illuminato:

D'altra parte il suicidio è giustificato quando è commesso dagli esseri nobili che hanno già rescisso il desiderio neutralizzando in questo modo le loro azioni rendendole incapaci di produrre ulteriori frutti.  Dal punto di vista del buddhismo dei primi tempi il suicidio è una vicenda normale per quegli esseri nobili che, avendo completato il loro compito, tagliano l'ultimo legame con il mondo entrando volontariamente nel Nirvāṇa, sfuggendo così definitivamente al mondo delle rinascite (1965:106f).

  La distinzione significativa quindi per il Lamotte è che l'arhat agisce senza desiderio, contrariamente ad una persona non illuminata.  Il Wiltshire condivide questo punto di vista quando scrive che "il suicidio è fatale alla propria salvezza nella maggioranza dei casi, ma non per gli arahant, le cui azioni non sono motivate da taṇhā [sete, brama NdT] (S.I.121).6  Anche il Becker considera la moralità del suicidio centrata esclusivamente sulla motivazione, sebbene sottolinei il ruolo della seconda delle "tre radici del male" (akusalamūla) piuttosto che la prima.  "Non c'è nulla d' intrinsecamente sbagliato nel togliersi la vita - scrive - quando non è fatto per odio, rabbia o paura" (1993:137).

  Nonostante tali opinioni a me sembra che il buddhismo creda che ci sia qualcosa d'intrinsecamente sbagliato nel togliersi la vita (come anzi nel togliere la vita a qualsiasi essere vivente) e che la motivazione - per quanto sia molto importante nella valutazione della moralità delle azioni - non sia il solo metro della rettitudine.7  Ammettere un ruolo determinante alla motivazione mi lascia insoddisfatto in quanto apre la porta alla teoria etica conosciuta come soggettivismo.  Il soggettivismo sostiene che il giusto e lo sbagliato esistano solamente in funzione dello stato mentale dell'agente e che gli standard morali siano una faccenda di opinioni o sensazioni personali.  Per il soggettivista nulla è oggettivamente moralmente buono o moralmente cattivo e le azioni in sé stesse non hanno caratteristiche morali di rilievo.  Il metodo delle "radici del male" nelle valutazioni morali sopra descritto è soggettivismo in quanto ritiene che la stessa azione (il suicidio) possa essere sia giusta che sbagliata a seconda dello stato mentale della persona che si suicida: la presenza del desiderio (o della paura) lo rende sbagliato e l'assenza del desiderio (o della paura) lo rende giusto.

  Se applicato ad altri contesti morali tuttavia, questo modo di ragionare porterebbe a conclusioni inusuali.  Vorrebbe dire, ad esempio, che l'omicidio sarebbe sbagliato soltanto fintanto che chi lo perpetra abbia il desiderio di uccidere.  Ma questo non terrebbe in alcun conto di tutte le dimensioni oggettive del crimine ossia l'errore insito nel privare un innocente della propria vita.  Nell'assassinio si commette una grave ingiustizia ad un'altra persona a prescindere dallo stato mentale dell'assassino.  Localizzare l' errore dell'omicidio solamente nel desiderio vuol dire non vedere la caratteristica morale cruciale del gesto.  Nel suicidio ovviamente non c'è la vittima, ma il confronto illustra come i giudizi morali tipicamente si focalizzino sul cosa è stato fatto e non solo sullo stato mentale dell' agente.

  Inoltre, sostenere che il suicidio sia sbagliato se motivato dal desiderio vuol dire sostenere che il solo desiderio sia sbagliato.  Da ciò deriverebbe che qualcuno che uccida senza desiderio non farebbe nulla di sbagliato.8  L'assurdità di tale conclusione mostra perché il considerare da un punto di vista soggettivista la moralità del suicidio sia un metodo inadeguato.  Il soggettivismo conduce alla conclusione che il suicidio (o l'omicidio) sia giusto per una persona ma sbagliato per un'altra, oppure addirittura che sia giusto e sbagliato per la stessa persona in momenti diversi, a seconda del suo stato mentale, di come il desiderio sorga o cessi.

  L'idea che il suicidio sia giusto per gli arahat ma sbagliato per chi non lo sia appare strana anche sotto un altro punto di vista.  Gli arahat e i Buddha sono elevati dalla tradizione a paradigma di moralità: in ogni circostanza imitare un Buddha o un arahat è bene.  Il suicidio tuttavia, secondo le opinioni del Lamotte ed altri, sarebbe un'eccezione a questa regola.  In questo caso l'essere non illuminato non dovrebbe imitare gli illuminati.  Ma cosa renderebbe il suicidio una tale anomalia morale?  Perché dovrebbe esserci una moralità comune per tutto il resto e invece una duplice moralità nel caso del suicidio?  Non sembra esserci nessuna ovvia ragione sul perché il suicidio (e non invece l'omicidio, il furto o la menzogna) debba costituire un "caso speciale".

  Le ragioni sopra esposte indicano che la spiegazione offerta dal Lamotte ed altri sul perché il buddhismo condoni il suicidio sia errata.  Questo rifiuto del soggettivismo solleva interrogativi sull'opinione comune che il buddhismo condoni il suicidio degli arahat e indica che le basi di questa congettura debbano essere riesaminate.

  Quello che desidero fare in questo saggio è di riprendere in considerazione le fonti per vedere se veramente mostrino "senza ombra di dubbio", come sostenuto dal de La Vallee Poussin, che il suicidio sia condonato.  A tale scopo propongo di riesaminare uno dei casi di suicidio riportati nel Canone pali, ossia quello del monaco Channa.  Ho scelto il caso di Channa perché di tutti e tre è quello che fornisce la prova più forte che il buddhismo condoni il suicidio in certe circostanze.  Il caso di Channa è ben noto ma non è stato ancora esaminato in dettaglio né sono state prese in considerazione le opinioni del commentario, cosa alla quale vorrei qui porre rimedio.  Anticipo le mie conclusioni dicendo che secondo me si direbbe che ad un'analisi più approfondita il testo sia meno scontato di quanto a volte si sia ritenuto sia per quanto riguarda l'interpretazione testuale che per le conclusioni normative che se devono trarre.

  Ci sono altri aspetti del problema del suicidio che meritano attenzione ma non ho qui le risorse per affrontarli.  In questo saggio non fornisco una definizione di suicidio perché gli esempi che vi saranno considerati non sollevano questo problema: sono tutti esempi ragionevolmente chiari di una morte voluta da sé stessi ed auto-inflitta.  Il concetto di suicidio però è complesso e non è per niente facile darne una definizione che non sia né troppo stretta né troppo larga.  Molte domande dipendono da come si definisce il suicidio in confronto ad altre forme di morte volontaria.  Da un punto di vista buddhista queste includono interrogativi quali se il nirvana sia considerabile una forma di suicidio9 (il Buddha era a volte accusato di nichilismo), se la stessa morte del Buddha sia stato un suicidio10, se il nutrire una tigre affamata del proprio corpo sia suicidio11 e se il rito giapponese del seppuku costituisca suicidio12.  È con una certa sensazione di sollievo che lascio tali questioni da parte in questa circostanza!

Le visite ai malati


  Dei tre casi canonici di suicidio due - quelli di Channa e di Godhika - sono narrati nello stile classico canonico della descrizione di una visita ad un malato13.  Fare visita ad un malato è considerato un'attività degna di un monaco14.  La trama seguente è tipica di tali narrazioni, per quanto ce ne siano variazioni consistenti:
  1. il paziente è presentato per nome con una descrizione sommaria del suo stato ("in afflizione, sofferente e gravemente malato")15;
  2. il paziente manda un emissario a chiedere la visita di un religioso16;
  3. un discepolo anziano del Buddha viene a fare visita;
  4. il monaco in visita esprime la speranza che la situazione migliori ma il paziente riferisce che invece sta peggiorando;
  5. il monaco in visita recita un sermone, quindi si allontana;
  6. qualcosa succede al paziente (si sente meglio, muore o si suicida);
  7. al Buddha è riferita notizia di quanto è successo;
  8. il Buddha si pronuncia in proposito.
  Molti altri casi seguono questa stessa trama senza però finire con la morte auto-inflitta.  Il Wiltshire tuttavia considera tali casi pertinenti al suicidio:

Per la loro notevole somiglianza con le storie che sono indubbiamente dei suicidi, tratteremo queste quali pertinenti al caso in esame.  Il problema della loro interpretazione è creato in parte dalla locuzione pāli katakāla (lett. "porre fine") che è usata sia per la morte dovuta a cause naturali che per il suicidio17.

  Il Wiltshire ha qui preso due volte un granchio.  Il primo caso è di poca importanza: la parola composta katakāla non compare mai nel Canone mentre il termine usato è sempre kālakata.  Più importante è piuttosto la sua idea che tale termine sia usato a proposito dei casi di suicidio.  Non c'è motivo di supporre, considerandone il contesto, che nessuno dei 174 brani dove compare questo termine nel Canone tratti della morte per suicidio18Kālakata vuol dire semplicemente "morto" e in assenza di ulteriori dettagli non c'è motivo di ritenere che denoti il sucidio più di quanto l'uso del termine italiano "morto" implichi una morte da suicidio.  È da notare come il termine kālakata non sia mai usato nei resoconti dei tre bhikkhu suicida: qui è scritto piuttosto che tutti e tre abbiano "usato il coltello" (satthaṃ āharesi)19.  Includendo questi altri casi nella sua trattazione del suicidio il Wiltshire dà l'impressione che il suicidio fosse più frequente di quanto in realtà era. Supponendo tali storie correlate con i tre casi di suicidio egli scrive:

Le storie che appartengono a questa categoria sono quelle del bhikkhu Assaji (S.III.124) - questa storia segue quella di Vakkali nel Saṃyutta e ne condivide lo schema, tranne per il non fare menzione della sua morte; questo era probabilmente ritenuto superfluo da specificare essendo il tema di questi sutta la dottrina dei cinque khandha - e dei due upāsaka Anāthapiṇḍika (M.III.258; S.V.380) e Dīghāvu (S.V.344)20.

  Non c'è ragione di correlare queste storie ai suicidi e l'assunzione che una qualunque di queste morti sia il frutto di un intento suicida è pura speculazione.  Come nota lo stesso Wiltshire i casi di suicidio sono chiaramente distinguibili per la locuzione riferita ai monaci de: "usando il coltello", che però manca in tutti i casi di cui sopra.  Per quanto riguarda Assaji, il testo lo dice (S.v.380 segg.) gravemente malato con problemi respiratori.  Il Buddha gli fa visita e gl'impartisce un insegnamento ma, come scrive il Wiltshire, non si fa cenno alla morte del paziente. Anāthapiṇḍika riceve una volta la visita di Sāriputta (caso insolito questo, in cui la malattia scompare!) e una volta di Ānanda.  In nessun caso si fa cenno alla sua morte né nel testo è mai contemplata la morte.  L' episodio di Dīghāvu (A.v.344), un discepolo laico, segue il solito schema.  Dīghāvu muore e il Buddha rivela come sia rinato un non-ritornante (anāgāmin).

  Invero, ci sono solamente due casi nel canone che forniscano una qualsiasi ragione per poter pensare che il suicidio vi sia condonato, quelli di Channa e Vakkali21.  Nel terzo caso, quello di Godhika, il Buddha non esprime alcuna opinione sul suicidio del monaco.  Anche nel caso di Vakkali il Buddha predice solamente che la morte di Vakkali non sarà stata "cattiva" (apāpika)22 - una dichiarazione che si presta ad essere interpretata in molti modi23.  Solamente in un caso, quello di Channa, è presente qualcosa che possa sembrare un'esonerazione data dopo l'evento.  Questa è espressa in forma di una breve dichiarazione del Buddha che F. L. Woodward ha tradotto in questo modo:

Di colui che, Sāriputta, depone un corpo e ne prende un altro, di costui dico: "Egli è biasimevole".  Ma non è questo il caso del fratello Channa. Il fratello Channa è senza biasimo per l'aver usato il coltello24.

  Non sarebbe un'esagerazione eccessiva l'affermare che l'idea che il suicidio sia ammissibile per gli arahat derivi in larga parte dal brano appena riportato.  A breve esporrò alcune motivazioni sul perché si possa dubitare della bontà della traduzione citata, però anche prendendola per buona penso si debba essere cauti prima d'interpretarla come un'ammissione della legittimità del suicidio per gli arahat.  La prima cosa da notare è che il Buddha non dichiara esplicitamente che egli condoni il suicidio degli arahat.  Non lo dice né qui né altrove.  Quello che il Buddha veramente dice nella prima parte della sua dichiarazione è leggermente diverso: dice che quello che considera biasimevole è l' attaccamento ad un corpo nuovo.  Questo è poco più di una conferma della dottrina standard buddhista25.  Quest'episodio può essere interpretato come il Buddha che prende lo spunto da quanto è appena successo per sottolineare l'importanza di rimanere centrati sullo scopo [della pratica], cosa che fece in numerose altre circostanze.  In altre parole, la morte di Channa diventa un'occasione preziosa perché il Buddha metta in rilievo l'urgenza di porre fine alla rinascita26.

  La parte più critica da spiegare della dichiarazione del Buddha è però l'ultima, quando dice: "Il fratello Channa è senza biasimo per l'aver usato il coltello".  Queste parole non implicano chiaramente, come il Wiltshire ed altri hanno indicato, l'esonero dal[le implicazioni morali negative del] suicidio?  Sì, credo di sì.  Tuttavvia non credo che questo porti alla conclusione che il buddhismo condoni il suicidio.  L'esonerazione e il condono sono due cose diverse.  L'esonerazione è il rimuovere il peso (onus) della colpa [dalla coscienza], mentre il condono è l'approvazione di quanto è stato fatto.  Questi due termini riflettono la distinzione - ben radicata nell'etica e nella legislazione occidentale - tra l'inammissibilità degli atti e la colpa insita da quanti li commettono.  Per quanto un atto sia in sé sbagliato, il peso della colpa che grava su chi l'ha commesso può variare.  L'autodifesa, la provocazione, la veemenza e lo stato d'insanità sono tutte circostanze che possono mitigare [la colpa insita nell'aver commesso] atti comunque sbagliati.  È anche ampiamente riconosciuta la possibile presenza di fattori psicologici e di altra natura che possono diminuire la responsabilità di una persona, in particolar modo nel caso del suicidio27.  Per questa ragione la responsabilità giuridica del suicidio è stata ridotta in molte legislazioni.

  Traducessimo, come fa il Woodward, la frase conclusiva del Buddha come significante che Channa abbia usato il coltello "senza biasimo", ciò significherebbe solamente questo: che il Buddha sentì non fosse il caso di biasimare o lamentare [l'azione di] Channa (o qualcuno nelle sue stesse condizioni).  Questo non significa per forza che il suicidio sia moralmente giusto: è solamente il riconoscere che il peso della colpa in certe circostanze può essere lieve o inesistente28.  E così possiamo concludere che in questo caso il Buddha abbia esonerato Channa, piuttosto che abbia condonato il suicidio.  Il Wiltshire esprime un'opinione simile:

Oltre al presentarci ipotetiche storie di suicidio, queste storie hanno un tema in comune: ciascuno dei protagonisti sta soffrendo di una grave malattia degenerativa.  E così, quando tentiamo di comprendere perché siano stati esonerati, dobbiamo innanzitutto capire che il loro atto non è stato commesso gratuitamente, ma che era stato imposto a forza dalle circostanze29.

  Fin qui la trattazione fa pensare che non si possa considerare quanto il Buddha abbia detto a proposito di Channa come l'imposizione di una regola generale in base alla quale si debba valutare il suicidio di un arahat.  Per lo meno, quanto riportato è largamente insufficiente perché possa provare "senza ombra di dubbio" che il suicidio di un arahat sia da condonarsi.

  Fin qui ho trattato dell'esonerazione del Buddha di Channa fuori del suo contesto.  Quello che vorrei fare nel resto del saggio è di esaminare più da vicino i dettagli del caso.  Più prestiamo loro attenzione, meno credo ci si possa sentire sicuri di poterne trarre conclusioni definitive.

Channa

  La vicenda di Channa30 è esposta in due racconti del canone, una volta nel Majjhima-nikāya31 e una volta nel Saṃyutta-nikāya32.  Come prima cosa farò un riassunto della cronaca riportata nel testo, quindi prenderò in considerazione come il commentario si esprime in proposito.

  Il Channovāda-sutta racconta come Sāriputta, Mahā Cunda e Channa risiedessero sul Picco dell'Avvoltoio.  Channa era "in afflizione, sofferente e gravemente malato"33.  Sorto dalla sua meditazione Sāriputta chiede a Mahā Cunda di andare insieme a fare visita a Channa che soffre, cosa che fanno.  Chieste a Channa informazioni sulla sua salute apprendono che le sue condizioni stanno peggiorando, invece di migliorare.  La natura della sua malattia non può essere diagnosticata, i sintomi sono però descritti con gli stessi usuali termini già usati a proposito del laico Anāthapiṇḍika nel sutta precedente.  Entambi si lamentano di un dolore intenso alla testa e allo stomaco, un dolore che anzi ha preso tutto il corpo.  Il dolore alla testa è detto come se questa fosse spaccata in due da una spada affilata o come fosse una cintura di cuoio stretta sempre più forte intorno ad essa.  Il dolore allo stomaco è paragonato a quello causato da un pugnale affilato usato per eviscerare, così come un macellaio eviscera il ventre di un vitello.  Il dolore del corpo è paragonato a quello causato da un letto di braci ardenti sui quali si sia arrostiti.  Il dolore della testa e dello stomaco sono attribuiti all'azione di "venti violenti" (adhimattā vātā) ma non si fa cenno a nessuna causa specifica per il dolore diffuso ma non meno intenso del resto del corpo34.

  Dopo aver descritto le proprie condizioni, Channa dice: "Userò il coltello, amico Sāriputta, non desidero vivere."35  Sentito ciò, la risposta immediata di Sāriputta tenta di dissuadere Channa dal togliersi la vita:

Che il venerabile Channa non usi il coltello!  Che il venerabile Channa viva: vogliamo che il venerabile Channa viva!36  Gli mancasse il cibo idoneo, ne andrò alla ricerca.  Gli mancassero le medicine idonee, ne andrò alla ricerca.  Gli mancasse un attendente idoneo, farò io da attendente.  Che il venerabile Channa non usi il coltello!  Che il venerabile Channa viva: vogliamo che il venerabile Channa viva!

  In risposta a tali suppliche - che ritengo rappresentino l'atteggiamento tipico del buddhismo nei confronti del suicidio - Channa spiega che non gli manca né cibo, né medicine, né assistenza.  Continua quindi, in un discorso alquanto digressivo, dicendo com'egli abbia a lungo servito il maestro con amore, come ci si aspetta faccia un discepolo, prima di ripetere la sua intenzione di "usare il coltello":

Amico Sāriputta, non è che non abbia il cibo idoneo, o le medicine idonee o l'attendente idoneo.  Piuttosto, amico Sāriputta, il Maestro è stato ben servito da me con amore, non senza amore; perché è bene che il discepolo serva il Maestro con amore, non senza amore.  Amico Sāriputta, ricorda: il monaco Channa avrà usato il coltello senza biasimo.

  Non c'è un nesso logico tra le tre dichiarazioni contenute in questo brano (ho cibo idoneo - ho servito il maestro - userò il coltello), il che fa pensare ci possa essere stata qualche interpolazione di testo37.  Più importante di questo tuttavia è il fatto che Channa, sostenendo che la sua azione sarà stata priva di biasimo (anupavajja), introduce una dimensione morale alla sua precedente dichiarazione di volersi suicidare.

  Ma lo fa veramente? Il commentario offre una glossa interessante sul termine anupavajja, la parola chiave che sarà usata in seguito dal Buddha in senso di evidente esonerazione.  Il commentario offre due sinonimi di anupavajja in questo contesto: il primo è anuppattika, che vuol dire "senza ulteriore sorgere" e il secondo è appaṭisandhika, che vuol dire "che non conduce a rinascita"38.  Letto in questo modo, Channa sta dicendo: "Sāriputta, userò il coltello e non rinascerò - ricorda quanto ti ho detto."  Secondo il commentario quindi Channa sta esprimendo una considerazione su dei fatti - forse una predizione - piuttosto che un giudizio morale sul suicidio.

  Dopo di che il soggetto cambia e prima Sāriputta, quindi Mahā Cunda parlano a Channa di argomenti dottrinali.  Entrambi gli anziani poi si alzano e se ne vanno e poco dopo Channa "usa il coltello".  Sāriputta quindi va dal Buddha e, chiaramente senza credere Channa un arahat, gli chiede informazioni sulla destinazione post-mortem (gati) e sulla condizione futura (abhisamparāya) di Channa.  La risposta del Buddha tradisce un qualche grado d'impazienza ed implica che Sāriputta debba già conoscere la risposta: "Ma come, Sāriputta, il monaco Channa ti ha detto lui stesso del suo anupavajjatā!"39  Cosa vuol dire in questo caso anupavajjatā?  Essendo stata la domanda di Sāriputta sulla rinascita, il contesto avvalla pienamente l'interpretazione del commentario che anupavajja voglia dire "non rinato" e rende la risposta del Buddha perfettamente comprensibile.  Il Buddha sta dicendo una cosa tipo: "Sveglia, Sāriputta: mi stai chiedendo della rinascita di una persona che ti ha detto lui stessa di essere anupavajja, che non sarebbe rinata!"  Assumere che anupavajja voglia dire "privo di biasimo" non quadrerebbe altrettanto bene col contesto, giacché Sāriputta stava semplicemente chiedendo delle informazioni concrete sul destino di Channa e non un giudizio morale sul modo in cui è morto.

  Subito dopo questo dialogo, Sāriputta usa di nuovo il termine upavajja a proposito dell'associazione di Channa con certe famiglie nel villaggio dei Vajji di Pubbajira, il paese natale di Channa40.  Si riferisce a queste famiglie quali upavajjakulāni.  Il proposito della nota di Sāriputta non è chiaro, come pure non lo è il significato di upavajjakula.  Potrebbe significare "famiglia biasimevole" oppure potrebbe significare, come suggerisce il commentario, "una famiglia che dev'essere visitata"41.  Il punto, com'è spiegato dal commentario, riguarderebbe la colpa risultante da una relazione eccessivamente intima con dei parenti (kulasaṃsaggadosa), una colpa alla quale sembra che Channa fosse particolarmente incline.

  Non possiamo escludere a priori la possibilità che, nonostante il contesto macabro, intorno al significato di upavajja siano stati fatti oscuri giochi di parole il cui senso ci è oggi difficile da percepire.  La spiegazione più plausibile delle parole di Sāriputta riguardo la parentela [di Channa] è tuttavia che egli stesse facendo riferimento ad un altra circostanza in relazione alla quale aveva già sentito usare il termine upavajja a proposito di Channa.  Così facendo si starebbe difendendo dalla critica del Buddha che lui dovrebbe già sapere il destino di Channa.  Starebbe quindi dicendo: "Beh, sì, Channa mi ha detto che la sua morte sarebbe stata anupavajja, ma non ero certo cosa volesse dire con ciò giacché ho sentito questa parola usata a proposito di lui in un altro contesto, a proposito delle visite che faceva a certe famiglie."

  Il Buddha a questo punto conclude il discorso con la frase citata all'inizio che è stata presa quale un condono del suicidio di un arahat.  Penso che se si mettesse la frase pronunciata dal Buddha nel suo contesto si capirebbe che il Buddha non stia esonerando il suicidio, ma che stia invece fornendo una delucidazione del significato di anupavajja a Sāriputta.  Così è come potrebbero essere tradotte le sue parole:

È vero, Sāriputta, ci sono questi contribali e parenti che ricevevano le visite (upavajjakula) [di Channa]42, ma non lo dico "saupavajja" per questo (ettāvatā).  Per "saupavajja" intendo colui che depone il proprio corpo per prenderne un altro.  Questo non è il caso di Channa.  Channa ha usato il coltello senza essere rinato (anupavajja).  È così che devi intendere [le mie parole], Sāriputta43.

  È da notare come nella versione del Saṃyutta citata sopra il termine anupavajja ha come contrario non upavajja, come ci si potrebbe aspettare, che è la parola normalmente usata per dire "senza biasimo", ma con saupavajja, una parola che sembra essere stata creata appositamente per questo contesto essendo le sue due sole apparizioni in tutto il canone contenute nel brano appena citato.  Questo sembra confermare che upavajja non sia qui usata nell'usuale senso di "biasimevole" e che le parole anupavajja intesa come "non rinato" e saupavajja intesa come "rinato" siano usate come l'una il contrario dell'altra.

  Interpretando il termine chiave anupavajja come suggerisce di fare il commentario, che penso quadri bene con il contesto, la frase conclusiva del Buddha diventa non un'esonerazione del suicidio, ma una spiegazione del significato di una parola ambigua in un contesto che non ha nulla a che fare con l'etica.

Il commentario


  Il testo principale non dice nulla riguardo l'illuminazione di Channa.  Sappiamo che Channa morì da arahat per deduzione a partire dall'ultima frase pronunciata dal Buddha, per quanto non vi sia alcuna evidenza a sostegno del fatto che Channa fosse un arahat e nessun indizio sul quando lo sarebbe diventato.

  Curiosamente il commentario si occupa soprattutto di questa questione temporale riguardo l'illuminazione di Channa e compie un notevole sforzo per dimostrare che Channa non era un arahat prima che si suicidasse.  Tenta di provare questa tesi in due modi.

  Come prima cosa offre una spiegazione razionale sull'insegnamento specifico che Mahā Cunda aveva offerto a Channa.  Il commentario ipotizza che Mahā Cunda avesse impartito il suo insegnamento perché, dall'incapacità di Channa di sopportare il dolore della malattia e dalla sua minaccia di togliersi la vita, aveva dedotto che egli fosse ancora una persona non illuminata (puthujjana)44.  L'attribuire questa motivazione a Mahā Cunda è speculazione, perché il testo non dice nulla sulle sue motivazioni nella scelta dell'insegnamento in questione.  Né è mai Channa detto nel testo una "persona non illuminata" (puthujjana).  In secondo luogo il commentario ricostruisce gli ultimi momenti della vita di Channa per rendere evidente come l'illuminazione fosse stata conseguita nell'istante estremo:

"Usò il coltello" vuol dire che usò un coltello che toglie la vita: si tagliò la gola.  Ora, in quel preciso momento la paura della morte s'impossessò di lui e sorsero le prime avvisaglie della sua prossima vita (gatinimitta).  Sapendosi ancora non illuminato si sentì scosso (saṃviggo) e sorse l'introspezione.  Penetrata la realtà delle conformazioni mentali (sa"nkhāra) conseguì lo stato di arahat ed entrò nel nirvana simultaneamente alla sua morte (samasīsī hutvā).

  Il commentario sostiene quindi che Channa fosse un samasīsin ("parimenti diretto"), cioè una persona che muore e che consegue il nirvana simultaneamente45.  Anche questa ricostruzione della morte di Channa è speculativa, perché non ci sono forniti tali dettagli da nessuna parte nel testo. La conclusione della Horner sulla versione del commentario degli eventi è: "I fatti non potevano essere noti e si direbbe un tentativo piuttosto disperato di elaborare una ragione soddisfacente per il suo presunto conseguimento."46  Mentre si direbbe vero che la ricostruzione del commentario non possa mai essere verificata, la possibilità di conseguire un' "illuminazione improvvisa" in un momento critico "tra il ponte e il ruscello, [tra] il coltello e la gola" - come si esprime Robert Burton in The Anatomy of Melancholy [L'anatomia della melanconia]47 - è riconosciuta nelle fonti Pali e ci sono molti esempi di persone che conseguono l'illuminazione proprio quando stanno per uccidersi48.  La dichiarazione del commentario che Channa non fosse un arahat fino al momento della sua morte è largamente accettata nella letteratura successiva.  Il Wiltshire è dell'opinione che nessuno dei tre suicida fosse un arahat prima della morte.  A proposito del caso di Godhika scrive:

Avviene così che negli altri casi di suicidio di bhikkhu, quelli di Channa e di Vakkali, è pure scritto chiaramente come anche loro non fossero arahat fino al momento della loro morte, dopo la quale il Buddha li dichiarò parinibbuta49.

  Più della discussione sulla verità o falsità della ricostruzione degli eventi del commentario riveste tuttavia interesse la questione della ragione per la quale il commentario si dia tanto da fare per giungere alla conclusione che Channa non fosse un arahat.  La ragione sembrerebbe essere che certi aspetti del comportamento di Channa siano incompatibili con i concetti tradizionali sulla condotta di un arahat.  In altre parole ci dev'essere una o più caratteristiche del comportamento di Channa che la tradizione deve aver trovato difficile poter associare ad un arahat.  Penso che ci siano tre cose che il commentario possa aver trovato eccepibili.

  La più ovvia è che la tradizione trova semplicemente inconcepibile che un arahat sia capace di suicidarsi.  Per quanto ciò non sia mai scritto nel testo o nel commentario a proposito di questo episodio, è spesso dichiarato altrove che è impossibile che un arahat faccia un certo numero di cose, la prima delle quali è l'uccidere intenzionalmente un essere vivente50.  Atti di uccisione di qualsiasi genere non sono certamente in linea con il paradigma canonico dell'arahat calmo e sereno.

  Abbiamo un'indicazione della seconda ragione per cui il commentario possa trovare scomoda la nozione che Channa sia stato un arahat prima del suo suicidio nella motivazione attribuita a Mahā Cunda perché questi fornisse un' omelia a Channa.  Il commentario ipotizza che Mahā Cunda diede il suo insegnamento perché vide che Channa era "incapace di tollerare il dolore intenso" e che cercava la morte per eluderlo.  L'incapacità di tollerare il dolore dimostra una mancanza di autodominio che non è compatibile con lo stato di arahat.  Il pericolo nell'assenza di autodominio è che un monaco possa fare cose indegne del suo stato e che quindi possa causare la perdita della stima di cui l'ordine gode da parte della società.  Sostenendo che Channa non fosse illuminato fino al momento estremo si salva la reputazione di cui gode la figura dell'arahat dalla troppo umana debolezza di Channa di fronte al dolore.

  La terza ragione perché il commentario possa aver trovato da eccepire sul suicidio di un arahat è di tipo settario.  Il suicidio tramite il digiuno volontario (sallekhanā) è una nota pratica jainista e il suicidio potrebbe essere stato comune [anche] presso gli ājīvika51.  Il suicidio di Channa e degli altri due potrebbe essere stato troppo simile a tali pratiche tipicamente settarie e avrebbe forse potuto essere stato inteso come uno scomodo ritorno verso il sentiero tanto discreditato dell'automortificazione.  Il rigetto del commentario del suicidio degli arahat potrebbe quindi significare anche un'implicito rifiuto del jainismo52.

  Ma quello che più di tutto colpisce, tuttavia, non è quello che il commentario dice, ma quello che non dice.  Mi riferisco alla completa assenza di ogni discussione sull'etica del suicidio.  Ci si aspetterebbe almeno un richiamo alla terza pārājika che era stata introdotta [nel codice di disciplina monastica, NdT] proprio per impedire il suicidio da parte dei monaci53.  Quale può essere la ragione di questo silenzio?  Forse la spiegazione più semplice è che il suicidio di Channa non era considerato un evento che potesse sollevare un qualsiasi problema morale o di diritto: solo fosse stato Channa un arahat sarebbero sorti di tali quesiti.  Agli occhi del commentatore Channa era una persona non illuminata (puthujjana) che, colpita dal dolore e dall'agonia di una malattia grave, si toglie la vita.  Considerato [il fatto] sotto questo punto di vista sorgono pochi problemi etici: il suicidio di persone non illuminate è un evento triste ma piuttosto comune.  Sostenendo che Channa conseguì l'illuminazione solamente dopo aver intrapreso l'atto che l'avrebbe privato della vita, il commentario evita candidamente il dilemma di un arahat che infrange i precetti.

Conclusione


  A cosa ci porta tutto ciò nei confronti del consenso settantennale che il suicidio sia permesso agli arahat?   Penso che ci dia un buon numero di motivi per metterlo in dubbio.  Il primo è che non c'è ragione di ritenere che l' esonerazione di Channa costituisca un precedente che introduca una norma sul suicidio.  Questo perché l'esonerare dalla colpa non è la stessa cosa che condonare.

  Secondo: ci sono ragioni basate sui testi per pensare che l'apparente esonerazione del Buddha non sia invece per niente un'esonerazione.  I problemi legati a[lla corretta interpretazione de]i testi sono troppo complessi e non sarebbe prudente trarne conclusioni definitive.  Si può osservare al volo che l'evidenza contenuta nei testi che il suicidio possa essere permesso è molto maggiore nel cristianesimo che nel buddhismo.  Ci sono molti esempi di suicidio nel vecchio testamento: questo non ha tuttavia impedito alla tradizione cristiana d'insegnare con ferma continuità54 che il suicidio sia un errore grave.  In confronto i testi theravāda sono un modello di coerenza nel loro rifiuto di ammettere la distruzione intenzionale di vita.

  Terzo: la tradizione dei commentari trova l'idea che un arahat si tolga la vita come Channa ebbe a fare completamente inaccettabile.

  Quarto: c'è una quarta considerazione logica che, per quanto ovvia, sembra sia stata trascurata nelle precedenti discussioni.  Se assumiamo, come fa il commentario e la letteratura successiva, che Channa non fosse un arahat prima del suo suicidio, l'estrapolare da questo caso una regola che ammetta il suicidio come una pratica ammessa per gli arahat è fallace.  La ragione perché sia da ritenersi tale è che il suicidio di Channa era - sotto tutti i punti di vista degni di nota - il suicidio di una persona non illuminata.  La motivazione, la deliberazione e l'intenzione che hanno preceduto il suo suicidio - tutto fino all'atto dell'afferrare la lama - tutto ciò era stato compiuto da una persona non illuminata.  Il suicidio di Channa non può quindi essere preso come un precedente valido per gli arahat per la semplice ragione che lui stesso non lo era fino a dopo ch'ebbe portato a termine l'atto di suicidarsi.

  Quinto e ultimo: il suicidio è ripetutamente condannato nelle fonti canoniche e non canoniche e va direttamente "contro la corrente" degli insegnamenti morali buddhisti.  Un elenco di motivi per i quali il suicidio è sbagliato si può trovare nei testi55 anche se non è sviluppata nessuna obiezione di principio contro il suicidio.  Questa non è una cosa facile da farsi, Schopenhauer non aveva completamente torto nel dichiarare che le motivazioni morali contro il suicidio "risiedano nel più profondo [dell'animo] e non sono scalfiti dall'etica ordinaria"56.  In precedenza ho affermato come la critica del suicidio quale "radice del male", ossia che il suicidio sia sbagliato a causa della presenza del desiderio o dell'avversione, sia insoddisfacente in quanto conducente verso il soggettivismo.  L'obiezione più profonda al suicidio mi sembra non si possa trovare in uno stato emotivo dell' agente, piuttosto trovo sia da ricercare in una qualche caratteristica intrinseca dell'atto del suicidio che lo renda moralmente sbagliato.  Credo, tuttavia, che ci sia una maniera di conciliare i due modi di affrontare la questione.  Per farlo sarà necessario riconoscere l'erroneità del suicidio come risiedente nell'illusione (moha) piuttosto che nelle "radici" emotive del desiderio e dell'odio.

  Considerato su queste basi il suicidio è da ritenersi sbagliato in quanto costituente un atto irrazionale.  Questo non significa che è attuato [solo] quando l'equilibrio della mente è alterato, ma che è incoerente nel contesto degli insegnamenti buddhisti.  E questo è da intendersi nel senso di essere contrario ai valori fondamentali buddhisti.  Quello che per il buddhismo ha valore non è la morte, ma la vita57.  Il buddhismo vede la morte come un' imperfezione, un difetto della condizione umana, una cosa che dev'essere superata piuttosto che ricercata.  La morte compare nella prima nobile verità come uno degli aspetti primari della sofferenza (dukkha-dukkha).  Una persona che opti per la morte credendola una soluzione alla sofferenza dimostra un'incomprensione fondamentale della prima nobile verità.  La prima nobile verità insegna che la morte è il problema, non la soluzione.  Il fatto che la persona che commette il suicidio rinascerà e vivrà di nuovo non è importante.  La cosa più rilevante [del suo gesto] è che con l'esaltare la morte egli abbia, nel suo cuore, abbracciato Māra.  Da un punto di vista buddhista questo è chiaramente irrazionale.  Potendo quindi considerare il suicidio [un atto] irrazionale, sotto questo punto di vista si può sostenere che ci siano basi oggettive perché sia considerato moralmente sbagliato.

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Vedasi anche:

  Può l'uccidere un essere vivente essere mai un atto di compassione? [Can Killing a Living Being Ever Be an Act of Compassion?] 37 pagine (221 KB) Scaricabile gratuitamente

  Can Killing a Living Being Ever Be an Act of Compassion? Come l'atto dell' uccisione è analizzato nell'Abhidhamma e nei commentari pali, di Rupert Gethin.

  Nella prima tradizione esegetica buddhista la nozione che uccidere intenzionalmente un essere vivente sia sbagliato si basa anche sull'idea che [in tali frangenti] certi stati mentali [negativi] siano presenti nella mente.  L'idea che uccidere un essere vivente possa essere una soluzione al problema della sofferenza va contro l'importanza posta dal buddhismo su dukkha quale realtà [oggettiva].  Il coltivare un'attitudine amichevole per affrontare la sofferenza è visto come un metodo che apporta effetti benefici per sé stessi come per gli altri in situazioni nelle quali può sembrare che la compassione debba [invece] portare ad uccidere.

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Note


  1. Wiltshire, Martin G. (1983) "The 'Suicide' Problem in the Pāli Canon,", Journal of the International Association of Buddhist Studies ("Il problema del 'suicidio' nel canone Pali", Giornale dell'Associazione internazionale di studi buddhisti) 6, pagg. 124-140.  Sono grato a Lance Cousins, Peter Harvey e Richard Gombrich per i loro commenti su una prima bozza di questo saggio.  Una discussione più esauriente sul suicidio si potrà trovare in un libro di prossima pubblicazione sull' etica buddhista di Peter Harvey pubblicato dalla Cambridge University Press dal titolo: An Introduction to Buddhist Ethics: Foundations, Values and Issues (Introduzione all'etica buddhista: fondamenti, valori e problemi) e sono grato all'autore per aver dato un'occhiata ad una copia preliminare dei capitoli rilevanti. ritorno
  2. La letteratura sul suicidio include: L. de La Vallee Poussin "Suicide (Buddhist)" ne: The Encyclopaedia of Religion and Ethics, edizioni James Hastings (Edinburgh, Clark: 1922) XII, 24-26; Woodward, F.L. (1922) "The Ethics of Suicide in Greek, Latin and Buddhist Literature," Buddhist Annual of Ceylon, pagg. 4-9; Gernet, Jacques (1960) "Les suicides par le feu chez les bouddhiques chinoises de Ve au Xe siecle," Melange publies par l'Institut des Hautes Études Chinoises II, pagg. 527-558; Filliozat, Jean (1963) "La Morte Volontaire par le feu en la tradition bouddhique indienne," Journal Asiatique 251, pagg. 21-51; Jan, Yün-hua (1964-5) "Buddhist Self-Immolation in Medieval China," History of Religion 4, pagg. 243-268; Rahula, W. (1978), "Self-Cremation in Mahāyāna Buddhism," in Zen and the Taming of the Bull, Gordon Fraser, London; Van Loon, Louis H. (1983) "Some Buddhist Reflections on Suicide," Religion in Southern Africa 4, pagg. 3-12; La motte, E. (1987) "Religious Suicide in Early Buddhism," Buddhist Studies Review 4, pagg. 105-126 (prima pubblicazione in francese del 1965); Harvey, Peter (1987) "A Note and Response to 'The Buddhist Perspective on Respect for Persons'," Buddhist Studies Review 4, pagg. 99-103; Becker, Carl B. (1990) "Buddhist views of suicide and euthanasia," Philosophy East and West 40, pagg. 543-556; Becker, Carl B. (1993), Breaking the Circle: death and the afterlife in Buddhism. Carbondale: Southern Illinois University Press; Stephen Batchelor, "Existence, Enlightenment and Suicide: the Dilemma of Ñāṇavīra Thera," saggio inedito esposto al: The Buddhist Forum, School of Oriental and African Studies, università di Londra, 8 dicembre 1993.  Woodward cita la discussione sull'episodio di Channa in "Edmunds, Buddhist and Christian Gospels, ii, 58" ma non mi è riuscito d'identificare questo brano.  Per una trattazione più generale si veda Thakur, Upendra (1963), The History of Suicide in India.  New Delhi: Munshiram Manoharlal; Suicide in Different Cultures, ed. Norman L. Farberow, Baltimore: University Park Press, 1975; Young, Katherine K. (1989), "Euthanasia: Traditional Hindu Views and the Contemporary Debate," nelle edizioni Hindu Ethics. Purity, Abortion, and Euthanasia. Harold G. Coward, Julius J. Lipner, e Katherine K. Young, McGill Studies in the History of Religions, edizioni Katherine K. Young, Albany, NY: State University of New York Press, pagg. 71-130, specialmente pagg. 103-7.  C'è dell'ulteriore letteratura sul suicidio rituale in Giappone (seppuku), ma considero questa pratica legata al codice giapponese dei Samurai che poco deve al buddhismo (si direbbe che il Becker sia in disaccordo in proposito). ritorno
  3. 1922:25. In una voce enciclopedica più recente Marilyn J. Harran scrive: "Il buddhismo nelle sue varie forme afferma che, anche se il suicidio come sacrificio di sé stessi possa essere appropriato per chi è un arahat, una persona che ha conseguito l'illuminazione, sia lo stesso da ritenersi un'eccezione alla regola" s.v. "Suicide (Buddhism and Confucianism)" ne: The Encyclopedia of Religion, editore responsabile Mircea Eliade (New York: Macmillan), vol. 14 pag. 129. ritorno
  4. 1922:8. ritorno
  5. Idee di questo tipo con qualche variazione sono esposte da Poussin (1922), Wiltshire (1983), van Loon (1983), Lamotte (1987), Taniguchi, Shoyu (1987) "A Study of Biomedical Ethics from a Buddhist Perspective", tesi di master inedita, Berkeley: Graduate Theological Union and the Institute of Buddhist Studies, pagg. 86-89, Young (1989), Florida, Robert E. (1993) "Buddhist Approaches to Euthanasia," Studies in Religion/ Sciences Religieuses 22, pagg. 35-47, pag.41. ritorno
  6. 1983:134. ritorno
  7. A proposito dei criteri della valutazione morale nel buddhismo si veda Peter Harvey "Criteria for Judging the Unwholesomeness of Actions in the Texts of Theravāda Buddhism," Journal of Buddhist Ethics 2 1995: pagg. 140-151.  Si veda anche Keown, Damien (1995), Buddhism & Bioethics (Londra: Macmillan), pagg. 37-64. ritorno
  8. Si può obiettare come sia impossibile assassinare senza desiderio od odio.  A prescindere da quanto ciò possa essere psicologicamente vero, la possibilità teoretica che gli omicidi privi di desiderio siano considerabili non immorali rivela l'inadeguatezza della tesi soggettivista.  Un altro difetto di tale tesi è che la gravità degli omicidi non sarebbe funzione di altro che della quantità di desiderio presente.  Un "crimine passionale" sarebbe quindi molto più grave dello sparare a caso da un'automobile in corsa.  Il fatto che i tribunali spesso esprimano un parere discordante dovrebbe far dubitare di una tale conclusione. ritorno
  9. Così si sostiene in Miln. 195 segg. ritorno
  10. Così è ipotizzato, ad esempio, da Florida, Robert E. (1993): "Buddhist Approaches to Euthanasia," Studies in Religion/Sciences Religieuses 22, pagg. 35-47, pag. 45. Confr.  Poussin: "Nel caso del "Sākyamuni abbiamo a che fare con una morte volontaria" (op cit).  Dobbiamo tuttavia tenere a mente che il Buddha respinse la disponibilità mostrata da Māra nei suoi confronti all'inizio della sua carriera (D.ii.102), cosa che fece di nuovo tre mesi prima della sua morte (D.ii.99). ritorno
  11. La storia della tigre affamata si trova nel Jātaka-māla e nel Suvarṇaprabhāsottama-sūtra. ritorno
  12. Si veda Fairbairn, Gavin J. (1995): Contemplating Suicide, Londra: Routledge, pagg. 144 e segg. Fairbairn avanza la tesi che il seppuku non sia un suicidio perché il samurai non intende porre fine alla propria vita ma solo di eseguire fino in fondo il suo dovere. ritorno
  13. Ad esempio S.v.344 (Dīghāvu); S.iv.55, M.iii.263 (Channa); S.iii.119 (Vakkali); S.iii.124 (Assajji); M.iii.258, S.v.380 (Anāthapiṇḍika). ritorno
  14. V.5.230(167):2. bhagavatā kho āvuso gilānupaṭṭhānaṃ vaṇṇitaṃ.  Citazioni in questo formato possono trovarsi nell'edizione BUDSIR del Tipiṭaka thailandese su CD-ROM.  La citazione che abbiamo qui fornito proviene dal volume V, pag. 230, paragrafo (o particola) 167, linea 2. ritorno
  15. Non è chiaro se Godhika stesse soffrendo di una qualche malattia oppure no. ritorno
  16. Nel caso di Channa il punto 2 manca e Sāriputta e Mahā Cunda gli fanno visita di loro propria iniziativa. ritorno
  17. 1983:132. ritorno
  18. Lo stesso può dirsi delle 137 volte in cui compare il termine kālame akāsi ("morì"). ritorno
  19. Intendo questo (come fa il commentario) nel senso letterale così da significare che è stato effettivamente usato un coltello (o un oggetto simile affilato).  Il commentario dichiara che Channa "rescisse la sua canna del vento" (kaṇṭhanālaṃ chindi).  È possible che "usando il coltello" fosse una locuzione che denotasse il suicidio per qualsiasi mezzo ma ritengo ciò improbabile dato che, come nota il Wiltshire (1983:130) un rasoio faccia parte degli "effetti" monastici (sebbene non sembra che fosse chiamato sattha).  Sembra probabile che "usando il coltello" sia da intendere nel senso letterale del termine perché il laico che commette il suicidio in M.ii.109 e segg. non è detto abbia "usato il coltello" ma di essersi tagliato o di essersi squarciato (attānaṃ upphālesi). ritorno
  20. 1983:132. ritorno
  21. Altri suicidi reperibili nel canone includono, nel Vinaya, quelli di monaci i cui nomi non sono riportati la morte dei quali portò alla promulgazione della terza pārājika.  In M.ii.109segg. (vedasi sopra) un uomo uccide sua moglie e poi sé stesso perché non possano essere separati.  Casi di tentato suicidio conducente all'illuminazione includono quelli del monaco Sappadāsa nel Theragāthā (408) e della monaca Sīhā nel Therīgāthā (77) (entrambi discussi da Sharma, 1987:123 segg. Confr. Rahula 1978:22segg.).  In Ud. 92 e segg. l'anziano arhat Dabba si libra nell'aria e svanisce in una nuvola di fumo.  C'è un brano simile su Bakkula in M.iii.124-8. ritorno
  22. Mā bhāyi Vakkali -- apāpakaṃ te maraṇaṃ bhavissati apāpikā kālakiriyā. ritorno
  23. Questo può essere inteso semplicemente come una rassicurazione a Vakkali che non abbia nulla da temere dalla morte, oppure una predizione che morirà come arahat. ritorno
  24. Kindred Sayings, vol. IV pag.33.  Nel suo saggio introduttivo alla traduzione del Majjhima, la Horner sembra supporre che i compilatori del canone abbiano in realtà alterato il testo per poter esonerare Channa.  A proposito della frase esoneratoria del Buddha scrive: "gli fanno [al Buddha] sanzionare l'atto indegno del povero piccolo sofferente" (pag. xi.). ritorno
  25. L'uso del termine "biasimevole" è tuttavia insolito.  Il Buddha non indica altrove quanti sono rinati come "biasimevoli". ritorno
  26. Ad esempio: quando gli è chiesto il parere sulla pratica della preghiera rivolta verso le sei direzioni nel Sigālovāda-sutta, egli sposta abilmente il contesto sulle relazioni sociali. ritorno
  27. Negli insegnamenti cattolici questa distinzione è chiara.  'La dichiarazione sull'eutanasia' preparata dalla Sacra Congregazione della Dottrina della Fede dichiara: "Causare intenzionalmente la propria morte, o suicidio, è quindi tanto sbagliato quanto l'omicidio - sebbene, com'è generalmente accettato, in talune circostanze siano presenti fattori psicologici che possono diminuire la responsabilità o anche eliminarla completamente" (Boston: St. Paul's Books and Media, 1980), pag.7. ritorno
  28. Questo è simile alla reazione di Cristo di fronte alla moglie adultera: difendendo la donna con le parole: "Neppure ti condanno" (John 8, 11), Cristo non sta ammettendo la liceità dell'adulterio ma sta dimostrando compassione per la donna che ha peccato. ritorno
  29. 1983:132. ritorno
  30. Nel canone compaiono tre Channa: un paribbājaka, l'auriga di Gotama e l'anziano (thera) che compie il suicidio.  Si possono trovare dei dettagli in DPPN. ritorno
  31. Sutta 144. ritorno
  32. Nel Majjhima-nikāya è esposta nella "Divisione della base a sei parti" (Salāyatanavagga), la quinta ed ultima divisione degli "ultimi cinquanta" (upari-paṇṇāsa).  Qui, è il secondo dei cinque discorsi in stile "esortativo" (ovāda) che formano la prima parte della divisione.  Nel Saṃyutta-nikāya si trova nel Salāyatana- saṃyutta, dove le ragioni per la suo inclusione sembra essere legata al brano in cui Sāriputta espone degli insegnamenti a Channa sulle sei consapevolezze-e-sensi [S.18.72(107):10segg.]. ritorno
  33. ābhādhiko hoti dukkhito bālhagilāno. ritorno
  34. La natura della malattia di Channa non è facile da diagnosticare partendo qua questi sintomi.  Un'opinione medica che ho ricevuto recita così: "Il dolore al capo è tipico dell'emicrania, che è universale e conosciuta da secoli.  Altre cause possono essere un tumore intracraniale che abbia innalzato la pressione intracraniale, ma questo è di solito accompagnato dal vomito e da sintomi specifici neurologici che si direbbero assenti in questa descrizione.  Il dolore addominale è più difficle da spiegare.  La peritonite causa questo tipo di dolore acuto e ininterrotto e può essere causato da qualsiasi cosa provochi un' infezione peritoneale come un'appendicite esplosa, un'ulcera perforata, una perdita intestinale ecc.  Un'altra causa di tali dolori può essere l'intestino strangolato, spesso causato da problemi vascolari nelle persone anziane oppure da contorsioni delle interiora con conseguente perdita di flusso sanguigno.  Una terza causa in tale regione del mondo può essere un'infezione intestinale quale il colera o il tifo, spesso in concomitanza di diarrea.  Il dolore generale per tutto il corpo è la patologia più difficile di tutte [da diagnosticare].  È tipico della mialgia, un dolore dei muscoli che può essere scatenato da un'infezione generalizzata acuta, spesso di origine virale, e in malattie metaboliche rare del muscolo nelle quali certi enzimi sono carenti.  La combinazione [dei tre sintomi dolorifici] è strana."  Sono grato a mio fratello il dottor Paul A. Keown per la sua opinione (comunicazione personale del 23 settembre 1995).  Una seconda opinione, per la quale devo esprimere la mia gratitudine al dottor Steven Emmett, è esposta in questi termini: "Sia il dolore alla testa che quello addominale sono 'acuti', il che fa propendere ad un fenomeno vascolare, ma il dolore diffuso in tutto il corpo punta invece il dito verso un'inezione eziologica, per quanto qualsiasi grave afflizione possa produrre simultaneamente dolori corporei diffusi; in mia opinione si dovrebbe ipotizzare lupus eritematoso, infezione virale e forse sifilide, per quanto non sappia se fosse presente in quest'area del mondo in quell'epoca e quali siano le possiblità che dei sant'uomini la possano contrarre - sempre che le due persone avessero la stessa malattia nello stesso periodo (non so quanto distanti temporalmente siano [le vicende] dei due sutta) - ma se così fosse allora la causa sarebbe da ricercarsi in una malattia infettiva virale, ma anche forse batterica" (comunicazione personale del 14 settembre 1995). ritorno
  35. Satthaṃ āvuso Sāriputta āharissāmi nāvakaṇkhāmi jīvitan ti. ritorno
  36. Māyasmā Channo satthaṃ āharesi, yāpetāyasmā Channo yāpentaṃ mayaṃ āyasmantaṃ Channaṃ icchāma. ritorno
  37. Nella sua traduzione del brano del  Majjhima la Horner sembra supporre che Channa consideri la precedente riverenza per il maestro come una giustificazione dell'atto che si sta preparando a compiere: "No, amico Sāriputta. Non mi manca il cibo adeguato.  Ne ho.  Non mi mancano vestiti adeguati.  Ne ho.  Non mi mancano attendenti idonei.  Ne ho.  Io stesso, amico, ho atteso al Maestro per molti lunghi giorni prestandogli servizio in delizia, non in tedio.  Questa, amico, è la cosa giusta da farsi per un discepolo.  'Nella misura in cui ha servito il Maestro con un servizio reso in delizia, non in tedio, non biasimevole (si deve rendere conto) dell'uso del coltello che intende fare Channa': così devi intendere, amico Sāriputta."  Kindred Sayings, vol.II pag.31.  Il testo recita: Etaṃ hi āvuso sāvakassa paṭirūpaṃ satthāraṃ paricareyya manāpeneva no amanāpena taṃ anupavajjaṃ channo bhikkhu satthaṃ āharissatiti evametaṃ āvuso sāriputta dhārehīti.  L' interpretazione della Horner dipende dall'aver inteso il costrutto yaṃ - taṃ come una frase separata avente il senso di: "Nella misura in cui - fintanto che".  Tuttavia taṃ non è presente in tutti i manoscritti e comunque sarebbe più plausibile esprimerlo assumendo la clausola yaṃ una correlativa alla Etaṃ iniziale pittosto che a quella taṃ, assumendone il senso quale illustrazione di cosa sia "opportuno" (paṭirūpa) che un discepolo faccia piuttosto che quale annuncio di una condizione oggettiva che è poi giustificata dalla clausola taṃ.   I bhikkhu Ñā"namoli e Bodhi traducono diversamente dalla Horner nel loro The Middle Length Discourses of The Buddha (Wisdom, 1995). ritorno
  38. MA.10.237(390).  Sono grato a Lance Cousins per le sue osservazioni sul fatto che il commentario sembra assumere che il termine derivi dalla radice VRAJ (andare, camminare, procedere).  Questo termine porta ad associazioni con la rinascita: "con punar 'tornare alla vita'" (Monier Williams, s.v. VRAJ).  Un'altra derivazione possibile è da PAD.  Si veda CPD s.v. "an-upavajja".  Woodward suggerisce: "Sa-upavajjo (colpevole: in realtà 'assistito da un attendente')" (1922:8). ritorno
  39. Nanu te Sāriputta channena bhikkhunā sammukhāya eva anupavajjatā byākatā ti. ritorno
  40. DPPN s.v. "Channa. ritorno
  41. Upavajjakulānīti upasa"nkamitabbakulāni.  Questo sembrerebbe confermare la derivazione dal sanscrito upavrajya, "essere andati a".  Confr. CPD "upa-vajja." ritorno
  42. Oppure, "che sono senza biasimo." ritorno
  43. Honti hete Sāriputta Channassa bhikkhuno mittakulāni suhajjakulāni upavajjakulānīti.  Na kho panāhaṃ Sāriputta ettāvatā saupavajjoti vadāmi.  Yo kho Sāriputta imañca kāyaṃ nikkhipati aññañca kāyaṃ upādiyati tamahaṃ saupavajjoti vadāmi.  Taṃ Channassa bhikkhuno natthi.  Anupavajjaṃ Channena bhikkhunā satthaṃ āharitanti evametaṃ Sāriputta dhārehīti [S.18.74(111)]. ritorno
  44. Questa spiegazione è esposta nelle sue elucidazioni sulla parola "quindi" ["per cui"] (tasmā).  "Quindi" significa che [questo insegnamento è stato dato] perché Channa era incapace di sopportare il forte dolore e diceva che avrebbe usato il coltello.  Il venerabile Channa non era un illuminato (puthujjana), quindi Mahā Cunda gli dice di prestare attenzione al suo insegnamento.  (Tasmāti yasmā māraṇantikavedanaṃ adhivāsetuṃ asakkonto satthaṃ āharāmīti vadati, tasmā.  Putthujano āyasmā, tena idampi manasikarohīti dīpeti.) ritorno
  45. Lo stesso si sostiene a proposito di Vakkali e di Godhika.  Il concetto di samasīsī è sfruttato intensamente in questi casi.  Buddhaghosa spiega che ci sono tre tipi di samasīsī:  1) Iriyāpatha- samasīsī: una persona che sceglie una delle quattro posture [di meditazione] e si risolve di non cambiarla fino a che non consegua lo stato di arahat.  Il cambio di postura e il conseguimento dello stato di arahat avvengono nello stesso momento.  2) Rogasamasīsī: una persona che guarisce da una malattia e consegue lo stato di arahat nello stesso momento.  3) Jīvita-samasīsī: una persona che distrugge gli āsavas (āsavakkhaya) nello stesso momento in cui finisce la sua vita.  È il terzo caso che è qui contemplato. [SA.11.175(159):6-11]. ritorno
  46. Kindred Sayings V. pag.33 ritorno
  47. Robert Burton, The Anatomy of Melancholy, Parte 1, Sezione 4, Membro 1.  Citato in Battin, Margaret Pabst (1982), Ethical Issues in Suicide.  Englewood Cliffs, NJ: Prentice Hall, pag. 53. ritorno
  48. Ci sono casi di "Illuminazione improvvisa" anche nei testi pāli oltre che in quelli Mahāyāna.  Rahula ne scrive: "Esempi di questo tipo di illuminazione 'improvvisa' o di un 'subitaneo' conseguimento dello stato di arahat non mancano nemmeno nei commentari pāli."  Ne cita tre esempi, l'ultimo dei quali dal commentario del Theragāthā che è rilevante per la nostra discussione: "Il thera Mahānāma, che viveva su una montagna, era completamente disgustato della sua vita perché non gli era riuscito di liberarsi di tali pensieri impuri quale la lussuria e proprio nel momento in cui stava per suicidarsi saltando dalla sommità di una rupe conseguì lo stato di arahat."  Rahula, W. (1978), Zen and the Taming of the Bull.  Towards the Definition of Buddhist Thought, Londra: Gordon Fraser, pag.22.  In S.v.69 segg. una certa persona ottiene l'illuminazione nel momento della morte. ritorno
  49. 1983:134.  Il Wiltshire non specifica dove ciò sia "scritto chiaramente".  Infatti - come già notato - il testo non si esprime in materia né in un verso né nell'altro e non vi è nessuna inconsistenza riguardo il punto se fosse o no Channa un arahat prima che cominciasse a contemplare il suicidio.  Poussin, nella sua voce sul suicidio nella Encyclopaedia of Religion and Ethics elenca i suicidi di Vakkali e Godhika quali esempi di suicidi di arahat, ma non fornisce nessuna prova del fatto che lo fossero.  Tuttavia, nel suo conciso a proposito del suicidio di Godhika scrive: "Godhika conseguì lo stato di arhat appena dopo l'aver cominciato a tagliarsi la gola."  Questo è difficile sostenere sia il suicidio di un arhat.  Ma quello che sorprende di più è però l'assenza di ogni menzione a Channa in tutta la sua trattazione. ritorno
  50. D.iii.235. In D.iii.133 sono elencate in numero di nove e il commentario sostiene che persino uno entrato-nella-corrente non sia capace di tali cose.  (DA.iii.913). ritorno
  51. a proposito di Gosāla il Poussin cita Uvāsagadasāo, app. ii. pag. 23 e commenta: "Il suicidio è permesso agli asceti che hanno raggiunto il massimo grado di perfezione" (1922:25). ritorno
  52. Questa tesi, che non posso sviluppare in questa sede, mi è stata suggerita dall'articolo di Richard Gombrich: "The Buddha and the Jains.  A Reply to Professor Bronkhorst" (Asiatische Studien XLVIII, 4, 1994: 1069-1096).  I casi di suicidio del canone Pali possono costituire dei casi interessanti in sostegno della teoria di Bronkhorst sugli elementi di "non autenticità" nei testi buddhisti.  Il criterio per giudicare tali elementi è il seguente: "Forse la sola speranza che si potrà mai avere d'identificare gli elementi non autentici dei testi buddhisti è costituita dai casi speciali nei quali si tramanda che il Buddha abbia respinto certi elementi che pure sono riusciti a farsi strada giungendo nei testi e, in più, sono chiaramente identificabili come appartenenti ad uno o più movimenti [ascetici] non buddhisti." (citato dal Gombrich, pag. 1070).  I casi di suicidio si direbbero soddisfare questi requisiti in ogni cosa: il suicidio è respinto dal Buddha (nel Vinaya e altrove, si veda nota successiva), è trapelata nei testi (nei tre casi di suicidio) ed è identificabile come una pratica jainista.  Che questi casi possano costituire una prova a favore della tesi del Bronkhorst è però tutta un'altra faccenda. ritorno
  53. Vin. iii.71. ritorno
  54. Certamente dai tempi di sant'Agostino in poi.  I casi anomali nell' Antico Testamento sono spiegati da sant'Agostino come eccezioni dovute da un ordine diretto proveniente da Dio.  A proposito del suicidio nella chiesa antica vedasi Amundsen, Darrel W. (1989), "Suicide and Early Christian Values," in Suicide and Euthanasia, ediz. Baruch A. Brody, Dordrecht, Boston, Londra: Kluwer Academic Publishers, pagg. 77-153.  Sul giudaismo e il cristianesimo si veda Droge, A.J. e J.D. Tabor: A Noble Death: Suicide and Martyrdom among Christians and Jews in Antiquity. San Francisco: Harper Collins, 1991.  A proposito dell' antichità classica si veda van Hooff, Anton J.L. From Autothanasia to Suicide.  Self-Killing in Classical Antiquity.  Londra: Routledge, 1990. ritorno
  55. I motivi per i quali il buddhismo debba essere [ritenuto] contrario al suicidio includono i seguenti:  1) È un atto di violenza e quindi contrario al principio di ahiṃsā;  2) È contraio al primo precetto;  3) È contrario alla terza pārājika (confr. Miln. 195);  4) Si dichiara che: "gli arahant non accorciano la loro vita" (na ... apakkaṃ pātenti) Miln. 44, confr. D.ii.32/DA.810 citato dalla Horner (Milinda's Questions, I.61n.).  Sāriputta dice che che un arahat né desidera la morte né desidera non morire: avverrà quando avverrà (Thag. vv.1002-3).  5) Il suicidio distrugge una cosa di grande valore nel caso di una vita umana virtuosa ed impedisce a tale persona di agire per il bene degli altri (Miln. 195segg.)  Il Wiltshire sostiene che l'altruismo sia citato anche nel Pāyāsi Sutta come una ragione perché non ci si debba togliere la vita (1983:131).  A proposito della discussione in questo testo (D.ii.330-2) commenta: "Queto è il solo brano del Sutta Piṭaka in cui il suicidio sia trattato in termini astratti e lo stesso digressivi" (1983:130).  Kassapa dichiara che i virtuosi non debbano uccidersi per beneficiare dei buoni risultati del loro karma perché questo priverebbe il mondo della loro influenza positiva (D.ii.330f).  6) Il suicidio porta ad una fine prematura la vita.  Come scrive il Poussin (op cit): "Un uomo deve vivere il tempo che gli è concesso ... A tal fine il Buddha espone a Pāyāsi la similitudine della donna che si squarcia il corpo per vedere se il bambino che ha dentro di sé è maschio o femmina" (D.ii.331).  7) L'autoannichilazione è una forma di vibhava-taṇhā.  8) L'autodistruzione è associata a pratiche ascetiche che sono respinte in quanto "Il buddhismo ha metodi migliori di infrangere la lussuria e di distruggere il peccato" (Poussin, op cit).  9) È empiricamente evidente come dimostrato da I Tsing. in proposito scrive il Poussin: "Il pellegrino I-tsing dice che i buddhisti indiani si astengono dal suicidio e, in generale, dall'auto- tortura" (op cit).  10) Come scritto sopra, la prima reazione di Sāriputta è stata di dissuadere Channa con i termini più forti dall' usare il coltello.  La reazione di Sāriputta fa pensare che il suicidio fosse considerato tra i discepoli più anziani del Buddha una possibilità neppure degna di essere presa in considerazione. ritorno
  56. Foundation of Morals, sezione/paragrafo 5, citato in Battin, Margaret Pabst (1982), Ethical Issues in Suicide, Englewood Cliffs, NJ: Prentice Hall, pag. 74. ritorno
  57. A proposito della vita come un valore fondamentale nel buddhismo si veda Buddhism & Bioethics, pagg. 44-50. ritorno

http://www.buddhistethics.org, adesso http://blogs.dickinson.edu/buddhistethics/
Volume 3 1996

Ultima revisione della traduzione: 24 aprile 2013.


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