Traduzione di Alessandro
Selli dell'articolo originariamente sito in: http://www.buddhistethics.org/3/keown3.html,
ottenibile ora (aprile 2013) da: http://blogs.dickinson.edu/buddhistethics/files/2010/04/hallisey.pdf
(file PDF)
e reperibile come pagina HTML anche in: http://www.urbandharma.org/udharma/suicide.html
Il buddhismo e il suicidio - il caso di Channa
Damien Keown - Università
di Londra, Goldsmiths
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Nel suo articolo del 1983: "Il problema del 'suicidio' nel
canone pāli",
Martin Wiltshire ha scritto: "L'argomento del suicidio è stato
scelto non
solo per il suo innegabile interesse intrinseco e storico, ma
[anche]
perché
mette in luce certi problemi chiave nel campo dell'etica buddhista e
della
dottrina."1
Penso
che il Wiltshire abbia ragione
nell'identificare il
suicidio come un problema importante nell'etica buddhista:2
solleva
quesiti
basilari sull'autonomia e il valore della vita umana e riveste un
ruolo
centrale per problemi correlati quali il suicidio assistito da un
medico e l'
eutanasia.
Non affronterò nessuno di questi problemi in questa sede
perché la priorità
è qui l'affrontare il "problema" specifico che il Wiltshire ha
identificato
col titolo del suo articolo ossia che il suicidio sembra essere
considerato
con ambivalenza nel canone Pali. Il Wiltshire ha scritto nel
paragrafo d'
apertura: "Dovremmo forse mettere in risalto come il suicidio ci si
presenti
come un oggetto di ricerca accattivante quando si scopre quanto
sembri
considerato in modo equivoco nel canone, di come fosse sia censurato
che
condonato." L'idea che il suicidio sia considerato in modo
equivoco nel
canone risale almeno agli anni 20. Nella sua voce sul suicidio
nell'"Enciclopedia della religione e dell'etica" de La Vallee
Poussin
scrisse:
Abbiamo quindi
buone ragioni di credere (1)
che il suicidio non sia una pratica ascetica che conduca al
progresso
spirituale e al nirvāṇa e (2) che nessun santo o arhat - un
essere
spiritualmente perfetto - si ucciderebbe. Però
conosciamo
un certo numero di storie che provano senza ombra di dubbio che ci
si
sbaglia in queste due importanti conclusioni.
3
Lo stesso anno F. L. Woodward espresse un'opinione simile:
Ci sono tuttavia dei brani nei
Nikāya
dove il Buddha
approva il suicidio dei bhikkhu: ma in questi casi essi erano
arahant e
dobbiamo supporre che tali esseri che sono giunti all'autodominio
possano fare come pare loro riguardo la vita o la morte delle loro
carcasse.
4
Considerazioni di questo tipo hanno influenzato gli studiosi
occidentali
degli ultimi settant'anni.5
Di
recente il Becker - al di
là dell'evidenza
contenuta nei testi - ha parlato di come il Buddha abbia "elogiato"
il
suicidio di Vakkali e Channa (1993:136) ed ha sostenuto l'esistenza
di
un
"solido atteggiamento [permissivo] del buddhismo" (1993: 137) nei
confronti
del suicidio.
Sono stati condotti varii tentativi, la maggior parte dei
quali
hanno
ricalcato le stesse linee, per spiegare perché il suicidio sia
proibito agli
esseri non illuminati ma sia permesso agli esseri illuminati.
Nel
1965 il
Lamotte ha scritto:
Una persona che si uccida in preda
alla
disperazione
aspira ovviamente all'annichilazione: il suo suicidio, istigato
dal
desiderio, non gli risparmierà la fruizione [del frutto delle
sue azioni precedenti] e dovrà [anzi] scontare il frutto di
questa sua azione. Nel caso di un essere ordinario il
suicidio
è una follia che non permetterà di conseguire lo scopo
prefissato.
Questa situazione è [quindi] confrontata con il caso del
suicidio di un
essere illuminato:
D'altra parte il suicidio è
giustificato quando è commesso dagli esseri nobili che hanno
già rescisso il desiderio neutralizzando in questo modo le loro
azioni rendendole incapaci di produrre ulteriori frutti. Dal
punto di vista del buddhismo dei primi tempi il suicidio è una
vicenda normale per quegli esseri nobili che, avendo completato il
loro
compito, tagliano l'ultimo legame con il mondo entrando
volontariamente
nel Nirvāṇa, sfuggendo
così definitivamente al mondo delle rinascite (1965:106f).
La distinzione significativa quindi per il Lamotte è che
l'arhat agisce
senza desiderio, contrariamente ad una persona non illuminata.
Il
Wiltshire
condivide questo punto di vista quando scrive che "il suicidio è
fatale alla
propria salvezza nella maggioranza dei casi, ma non per gli arahant,
le
cui
azioni non sono motivate da taṇhā
[sete, brama NdT] (S.I.121).6
Anche
il
Becker considera la moralità del suicidio centrata
esclusivamente sulla
motivazione, sebbene sottolinei il ruolo della seconda delle "tre
radici del
male" (akusalamūla)
piuttosto
che la prima. "Non c'è nulla d'
intrinsecamente sbagliato nel togliersi la vita
- scrive - quando non
è fatto
per odio, rabbia o paura" (1993:137).
Nonostante tali opinioni a me sembra che il buddhismo creda
che
ci sia
qualcosa d'intrinsecamente sbagliato nel togliersi la vita (come
anzi
nel
togliere la vita a qualsiasi essere vivente) e che la motivazione
- per
quanto
sia molto importante nella valutazione della moralità delle
azioni - non sia
il solo metro della rettitudine.7
Ammettere un ruolo
determinante alla
motivazione mi lascia insoddisfatto in quanto apre la porta alla
teoria
etica
conosciuta come soggettivismo. Il soggettivismo sostiene che
il
giusto e lo
sbagliato esistano solamente in funzione dello stato mentale
dell'agente e che
gli standard morali siano una faccenda di opinioni o sensazioni
personali.
Per il soggettivista nulla è oggettivamente moralmente buono o
moralmente
cattivo e le azioni in sé stesse non hanno caratteristiche
morali di rilievo.
Il metodo delle "radici del male" nelle valutazioni morali sopra
descritto è
soggettivismo in quanto ritiene che la stessa azione (il suicidio)
possa
essere sia giusta che sbagliata a seconda dello stato mentale della
persona
che si suicida: la presenza del desiderio (o della paura) lo rende
sbagliato e
l'assenza del desiderio (o della paura) lo rende giusto.
Se applicato ad altri contesti morali tuttavia, questo modo
di
ragionare
porterebbe a conclusioni inusuali. Vorrebbe dire, ad esempio,
che
l'omicidio
sarebbe sbagliato soltanto fintanto che chi lo perpetra abbia il
desiderio di
uccidere. Ma questo non terrebbe in alcun conto di tutte le
dimensioni
oggettive del crimine ossia l'errore insito nel privare un innocente
della
propria vita. Nell'assassinio si commette una grave
ingiustizia ad un'altra
persona a prescindere dallo stato mentale
dell'assassino.
Localizzare l'
errore dell'omicidio solamente nel desiderio vuol dire non vedere la
caratteristica morale cruciale del gesto. Nel suicidio
ovviamente
non c'è
la vittima, ma il confronto illustra come i giudizi morali
tipicamente
si
focalizzino sul cosa è stato
fatto e non solo sullo stato mentale dell'
agente.
Inoltre, sostenere che il suicidio sia sbagliato se motivato
dal
desiderio
vuol dire sostenere che il solo desiderio
sia sbagliato. Da ciò deriverebbe
che qualcuno che uccida senza desiderio non farebbe nulla di
sbagliato.8
L'assurdità
di tale conclusione mostra perché il
considerare da un punto di
vista soggettivista la moralità del suicidio sia un metodo
inadeguato. Il
soggettivismo conduce alla conclusione che il suicidio (o
l'omicidio)
sia
giusto per una persona ma sbagliato per un'altra, oppure addirittura
che sia giusto e sbagliato per la stessa persona in momenti diversi,
a
seconda del suo
stato mentale, di come il desiderio sorga o cessi.
L'idea che il suicidio sia giusto per gli arahat ma sbagliato
per chi non lo
sia appare strana anche sotto un altro punto di vista. Gli
arahat
e i Buddha
sono elevati dalla tradizione a paradigma di moralità: in ogni
circostanza
imitare un Buddha o un arahat è bene. Il suicidio
tuttavia, secondo le opinioni del Lamotte ed altri, sarebbe
un'eccezione a questa regola. In
questo caso l'essere non illuminato non dovrebbe imitare gli
illuminati. Ma
cosa renderebbe il suicidio una tale anomalia morale?
Perché dovrebbe esserci
una moralità comune per tutto il resto e invece una duplice
moralità nel caso
del suicidio? Non sembra esserci nessuna ovvia ragione sul
perché il suicidio
(e non invece l'omicidio, il furto o la menzogna) debba costituire
un
"caso
speciale".
Le ragioni sopra esposte indicano che la spiegazione offerta
dal
Lamotte ed
altri sul perché il buddhismo condoni il suicidio sia
errata. Questo rifiuto
del soggettivismo solleva interrogativi sull'opinione comune che il
buddhismo
condoni il suicidio degli arahat e indica che le basi di questa
congettura
debbano essere riesaminate.
Quello che desidero fare in questo saggio è di riprendere
in considerazione
le fonti per vedere se veramente mostrino "senza ombra di dubbio",
come
sostenuto dal de La Vallee Poussin, che il suicidio sia
condonato. A tale
scopo propongo di riesaminare uno dei casi di suicidio riportati nel
Canone
pali, ossia quello del monaco Channa. Ho scelto il caso di
Channa
perché
di tutti e tre è quello che fornisce la prova più forte
che il buddhismo
condoni il suicidio in certe circostanze. Il caso di Channa
è ben noto ma
non è stato ancora esaminato in dettaglio né sono state
prese in
considerazione le opinioni del commentario, cosa alla quale vorrei
qui
porre
rimedio. Anticipo le mie conclusioni dicendo che secondo me si
direbbe che ad
un'analisi più approfondita il testo sia meno scontato di quanto
a volte si
sia ritenuto sia per quanto riguarda l'interpretazione testuale che
per
le
conclusioni normative che se devono trarre.
Ci sono altri aspetti del problema del suicidio che meritano
attenzione ma
non ho qui le risorse per affrontarli. In questo saggio non
fornisco una
definizione di suicidio perché gli esempi che vi saranno
considerati non
sollevano questo problema: sono tutti esempi ragionevolmente chiari
di
una
morte voluta da sé stessi ed auto-inflitta. Il concetto di
suicidio però è
complesso e non è per niente facile darne una definizione che
non sia né
troppo stretta né troppo larga. Molte domande dipendono da
come si definisce
il suicidio in confronto ad altre forme di morte volontaria.
Da
un punto di
vista buddhista queste includono interrogativi quali se il nirvana
sia
considerabile una forma di suicidio9
(il Buddha era a
volte accusato
di
nichilismo), se la stessa morte del Buddha sia stato un suicidio10,
se il
nutrire una tigre affamata del proprio corpo sia suicidio11
e se il
rito
giapponese del seppuku costituisca suicidio12.
È con
una certa sensazione
di sollievo che lascio tali questioni da parte in questa
circostanza!
Dei tre casi canonici di suicidio due - quelli di
Channa e di
Godhika - sono
narrati nello stile classico canonico della descrizione di una
visita
ad un
malato13.
Fare
visita ad un malato è
considerato
un'attività degna di un
monaco14.
La
trama seguente è tipica di tali
narrazioni, per quanto ce ne
siano variazioni consistenti:
- il paziente è presentato per nome con una descrizione
sommaria del suo stato ("in afflizione, sofferente e gravemente
malato")15;
- il paziente manda un emissario a chiedere la visita di un
religioso16;
- un discepolo anziano del Buddha viene a fare visita;
- il monaco in visita esprime la speranza che la situazione
migliori ma il paziente riferisce che invece sta peggiorando;
- il monaco in visita recita un sermone, quindi si allontana;
- qualcosa succede al paziente (si sente meglio, muore o si
suicida);
- al Buddha è riferita notizia di quanto è successo;
- il Buddha si pronuncia in proposito.
Molti altri casi seguono questa stessa trama senza però
finire con la morte
auto-inflitta. Il Wiltshire tuttavia considera tali casi
pertinenti al
suicidio:
Per la loro notevole somiglianza con
le
storie che
sono indubbiamente dei suicidi, tratteremo queste quali pertinenti
al
caso in esame. Il problema della loro interpretazione è
creato in parte dalla locuzione pāli katakāla (lett. "porre fine")
che
è usata sia per la morte dovuta a cause naturali che per il
suicidio
17.
Il Wiltshire ha qui preso due volte un granchio. Il
primo
caso è di poca
importanza: la parola composta katakāla
non compare mai nel Canone mentre
il termine usato è sempre kālakata.
Più
importante è piuttosto la sua idea
che tale termine sia usato a proposito dei casi di suicidio.
Non
c'è motivo
di supporre, considerandone il contesto, che nessuno dei 174 brani
dove
compare questo termine nel Canone tratti della morte per suicidio18. Kālakata
vuol
dire semplicemente "morto" e in assenza di ulteriori dettagli
non c'è motivo di ritenere che denoti il sucidio più di
quanto l'uso del
termine italiano "morto" implichi una morte da suicidio. È
da notare come il
termine kālakata non sia
mai
usato nei resoconti dei tre bhikkhu
suicida:
qui è scritto piuttosto che tutti e tre abbiano "usato il
coltello" (satthaṃ āharesi)19.
Includendo questi altri casi nella sua trattazione
del
suicidio il Wiltshire dà l'impressione che il suicidio fosse
più frequente di
quanto in realtà era. Supponendo tali storie correlate con i tre
casi di
suicidio egli scrive:
Le storie che
appartengono a questa categoria sono
quelle del bhikkhu Assaji (S.III.124) - questa storia segue quella
di
Vakkali nel Saṃyutta e ne condivide lo schema, tranne per il non
fare
menzione della sua morte; questo era probabilmente ritenuto
superfluo
da specificare essendo il tema di questi sutta la dottrina dei
cinque
khandha - e dei
due
upāsaka
Anāthapiṇḍika (M.III.258;
S.V.380) e Dīghāvu (S.V.344)
20.
Non c'è ragione di correlare queste storie ai suicidi e
l'assunzione che una
qualunque di queste morti sia il frutto di un intento suicida è
pura
speculazione. Come nota lo stesso Wiltshire i casi di suicidio
sono
chiaramente distinguibili per la locuzione riferita ai monaci de:
"usando il
coltello", che però manca in tutti i casi di cui sopra.
Per quanto riguarda
Assaji, il testo lo dice (S.v.380 segg.) gravemente malato con
problemi
respiratori. Il Buddha gli fa visita e gl'impartisce un
insegnamento ma,
come scrive il Wiltshire, non si fa cenno alla morte del paziente.
Anāthapiṇḍika riceve una volta la visita di Sāriputta (caso insolito
questo, in cui la malattia scompare!) e una volta di Ānanda.
In
nessun caso
si fa cenno alla sua morte né nel testo è mai contemplata
la morte. L'
episodio di Dīghāvu (A.v.344), un discepolo laico, segue il solito
schema.
Dīghāvu muore e il Buddha rivela come sia rinato un non-ritornante
(anāgāmin).
Invero, ci sono solamente due casi nel canone che forniscano
una
qualsiasi
ragione per poter pensare che il suicidio vi sia condonato, quelli
di
Channa e
Vakkali21.
Nel
terzo caso, quello di Godhika, il
Buddha non
esprime alcuna
opinione sul suicidio del monaco. Anche nel caso di Vakkali il
Buddha predice
solamente che la morte di Vakkali non sarà stata "cattiva" (apāpika)22 -
una dichiarazione che si presta ad essere interpretata in molti modi23.
Solamente in un caso, quello di Channa, è presente qualcosa che
possa sembrare
un'esonerazione data dopo l'evento. Questa è espressa in
forma di una breve
dichiarazione del Buddha che F. L. Woodward ha tradotto in questo
modo:
Di colui che, Sāriputta, depone un
corpo e ne prende
un altro, di costui dico: "Egli è biasimevole". Ma non
è questo il caso del fratello Channa. Il fratello Channa
è senza biasimo per l'aver usato il coltello
24.
Non sarebbe un'esagerazione eccessiva l'affermare che l'idea
che
il
suicidio sia ammissibile per gli arahat derivi in larga parte dal
brano
appena
riportato. A breve esporrò alcune motivazioni sul
perché si possa dubitare
della bontà della traduzione citata, però anche
prendendola per buona penso si
debba essere cauti prima d'interpretarla come un'ammissione della
legittimità
del suicidio per gli arahat. La prima cosa da notare è che
il Buddha non dichiara esplicitamente che egli
condoni il suicidio degli arahat. Non lo dice né qui
né altrove. Quello che
il Buddha veramente dice nella prima parte della sua dichiarazione
è
leggermente diverso: dice che quello che considera biasimevole è
l'
attaccamento ad un corpo nuovo. Questo è poco più
di una conferma della
dottrina standard buddhista25.
Quest'episodio
può
essere
interpretato come
il Buddha che prende lo spunto da quanto è appena successo per
sottolineare
l'importanza di rimanere centrati sullo scopo [della pratica], cosa
che
fece
in numerose altre circostanze. In altre parole, la morte di
Channa diventa
un'occasione preziosa perché il Buddha metta in rilievo
l'urgenza di porre
fine alla rinascita26.
La parte più critica da spiegare della dichiarazione del
Buddha è però
l'ultima, quando dice: "Il fratello Channa è senza biasimo per
l'aver usato il
coltello". Queste parole non implicano chiaramente, come il
Wiltshire ed
altri hanno indicato, l'esonero dal[le implicazioni morali negative
del]
suicidio? Sì, credo di sì. Tuttavvia non
credo che questo porti alla
conclusione che il buddhismo condoni
il suicidio. L'esonerazione e il
condono sono due cose diverse. L'esonerazione è il
rimuovere il peso (onus)
della colpa [dalla coscienza], mentre il condono è
l'approvazione di quanto è
stato fatto. Questi due termini riflettono la distinzione
- ben
radicata
nell'etica e nella legislazione occidentale - tra
l'inammissibilità degli atti
e la colpa insita da quanti li commettono. Per quanto un atto
sia
in sé
sbagliato, il peso della colpa che grava su chi l'ha commesso
può variare.
L'autodifesa, la provocazione, la veemenza e lo stato d'insanità
sono tutte
circostanze che possono mitigare [la colpa insita nell'aver
commesso]
atti
comunque sbagliati. È anche ampiamente riconosciuta la
possibile presenza di
fattori psicologici e di altra natura che possono diminuire la
responsabilità
di una persona, in particolar modo nel caso del suicidio27.
Per questa
ragione la responsabilità giuridica del suicidio è stata
ridotta in molte
legislazioni.
Traducessimo, come fa il Woodward, la frase conclusiva del
Buddha come
significante che Channa abbia usato il coltello "senza biasimo",
ciò
significherebbe solamente questo:
che il Buddha sentì non fosse il caso di
biasimare o lamentare [l'azione di] Channa (o qualcuno nelle sue
stesse
condizioni). Questo non significa per forza che il suicidio
sia
moralmente
giusto: è solamente il riconoscere che il peso della colpa in
certe
circostanze può essere lieve o inesistente28.
E
così possiamo concludere
che in questo caso il Buddha abbia esonerato Channa, piuttosto che abbia
condonato il suicidio.
Il
Wiltshire esprime un'opinione simile:
Oltre al presentarci ipotetiche
storie
di suicidio,
queste storie hanno un tema in comune: ciascuno dei protagonisti
sta
soffrendo di una grave malattia degenerativa. E così,
quando tentiamo di comprendere perché siano stati esonerati,
dobbiamo innanzitutto capire che il loro atto non è stato
commesso gratuitamente, ma che era stato imposto a forza dalle
circostanze
29.
Fin qui la trattazione fa pensare che non si possa
considerare
quanto il
Buddha abbia detto a proposito di Channa come l'imposizione di una
regola
generale in base alla quale si debba valutare il suicidio di un
arahat. Per
lo meno, quanto riportato è largamente insufficiente
perché possa provare
"senza ombra di dubbio" che il suicidio di un arahat sia da
condonarsi.
Fin qui ho trattato dell'esonerazione del Buddha di Channa
fuori
del suo
contesto. Quello che vorrei fare nel resto del saggio è di
esaminare più
da vicino i dettagli del caso. Più prestiamo loro
attenzione, meno credo ci
si possa sentire sicuri di poterne trarre conclusioni definitive.
La vicenda di Channa30
è esposta in due
racconti del
canone, una volta
nel Majjhima-nikāya31
e una volta nel Saṃyutta-nikāya32.
Come prima
cosa farò un riassunto della cronaca riportata nel testo, quindi
prenderò in
considerazione come il commentario si esprime in proposito.
Il Channovāda-sutta racconta come Sāriputta, Mahā Cunda e
Channa
risiedessero sul Picco dell'Avvoltoio. Channa era "in
afflizione,
sofferente
e gravemente malato"33.
Sorto
dalla sua meditazione
Sāriputta
chiede a
Mahā Cunda di andare insieme a fare visita a Channa che soffre, cosa
che
fanno. Chieste a Channa informazioni sulla sua salute
apprendono
che le sue
condizioni stanno peggiorando, invece di migliorare. La natura
della sua
malattia non può essere diagnosticata, i sintomi sono
però descritti con gli
stessi usuali termini già usati a proposito del laico
Anāthapiṇḍika nel
sutta precedente. Entambi si lamentano di un dolore intenso
alla
testa e allo
stomaco, un dolore che anzi ha preso tutto il corpo. Il dolore
alla testa è
detto come se questa fosse spaccata in due da una spada affilata o
come
fosse
una cintura di cuoio stretta sempre più forte intorno ad
essa. Il dolore allo
stomaco è paragonato a quello causato da un pugnale affilato
usato per
eviscerare, così come un macellaio eviscera il ventre di un
vitello. Il
dolore del corpo è paragonato a quello causato da un letto di
braci ardenti
sui quali si sia arrostiti. Il dolore della testa e dello
stomaco
sono
attribuiti all'azione di "venti violenti" (adhimattā vātā) ma non si fa
cenno a nessuna causa specifica per il dolore diffuso ma non meno
intenso del
resto del corpo34.
Dopo aver descritto le proprie condizioni, Channa dice:
"Userò il coltello,
amico Sāriputta, non desidero vivere."35 Sentito
ciò,
la risposta
immediata di Sāriputta tenta di dissuadere Channa dal togliersi la
vita:
Che il venerabile Channa non usi il
coltello! Che il
venerabile Channa viva: vogliamo che il venerabile Channa viva!
36 Gli
mancasse il cibo idoneo, ne andrò alla
ricerca. Gli mancassero le medicine idonee, ne andrò alla
ricerca. Gli mancasse un attendente idoneo, farò io da
attendente. Che il venerabile Channa non usi il
coltello!
Che il venerabile Channa viva: vogliamo che il venerabile Channa
viva!
In risposta a tali suppliche - che ritengo
rappresentino
l'atteggiamento
tipico del buddhismo nei confronti del suicidio - Channa
spiega che non
gli
manca né cibo, né medicine, né assistenza.
Continua quindi, in un discorso
alquanto digressivo, dicendo com'egli abbia a lungo servito il
maestro
con
amore, come ci si aspetta faccia un discepolo, prima di ripetere la
sua
intenzione di "usare il coltello":
Amico Sāriputta, non è che non
abbia il cibo
idoneo, o le medicine idonee o l'attendente idoneo.
Piuttosto,
amico Sāriputta, il Maestro è stato ben servito da me con amore,
non senza amore; perché è bene che il discepolo serva il
Maestro con amore, non senza amore. Amico Sāriputta,
ricorda: il
monaco Channa avrà usato il coltello senza biasimo.
Non c'è un nesso logico tra le tre dichiarazioni
contenute in questo brano
(ho cibo idoneo - ho servito il maestro - userò il
coltello), il
che fa
pensare ci possa essere stata qualche interpolazione di testo37.
Più
importante di questo tuttavia è il fatto che Channa, sostenendo
che la sua
azione sarà stata priva di biasimo (anupavajja),
introduce una
dimensione
morale alla sua precedente dichiarazione di volersi suicidare.
Ma lo fa veramente? Il commentario offre una glossa
interessante
sul
termine anupavajja, la
parola
chiave che sarà usata in seguito dal Buddha in
senso di evidente esonerazione. Il commentario offre due
sinonimi
di anupavajja in questo
contesto: il primo è anuppattika,
che vuol dire
"senza ulteriore sorgere" e il secondo è appaṭisandhika, che vuol dire "che
non conduce a rinascita"38.
Letto
in questo modo,
Channa sta
dicendo:
"Sāriputta, userò il coltello e non rinascerò - ricorda
quanto ti ho detto." Secondo il commentario quindi Channa sta
esprimendo una considerazione su dei
fatti - forse una predizione - piuttosto che un giudizio
morale sul
suicidio.
Dopo di che il soggetto cambia e prima Sāriputta, quindi Mahā
Cunda
parlano a Channa di argomenti dottrinali. Entrambi gli anziani
poi si alzano
e se ne vanno e poco dopo Channa "usa il coltello". Sāriputta
quindi va dal
Buddha e, chiaramente senza credere Channa un arahat, gli chiede
informazioni
sulla destinazione post-mortem (gati)
e sulla condizione futura
(abhisamparāya) di
Channa. La risposta del Buddha tradisce un qualche
grado d'impazienza ed implica che Sāriputta debba già conoscere
la risposta:
"Ma come, Sāriputta, il monaco Channa ti ha detto lui stesso del suo
anupavajjatā!"39
Cosa vuol
dire in questo caso anupavajjatā?
Essendo
stata la domanda di Sāriputta sulla rinascita, il contesto
avvalla pienamente l'interpretazione del commentario che anupavajja voglia dire
"non rinato" e rende la risposta del Buddha perfettamente
comprensibile. Il
Buddha sta dicendo una cosa tipo: "Sveglia, Sāriputta: mi stai
chiedendo
della rinascita di una persona che ti ha detto lui stessa di essere
anupavajja, che non sarebbe
rinata!" Assumere che anupavajja
voglia dire
"privo di biasimo" non quadrerebbe altrettanto bene col contesto,
giacché
Sāriputta stava semplicemente chiedendo delle informazioni concrete
sul
destino di Channa e non un giudizio morale sul modo in cui è
morto.
Subito dopo questo dialogo, Sāriputta usa di nuovo il termine
upavajja a
proposito dell'associazione di Channa con certe famiglie nel
villaggio
dei
Vajji di Pubbajira, il paese natale di Channa40. Si
riferisce
a queste
famiglie quali upavajjakulāni.
Il
proposito della nota di Sāriputta non è
chiaro, come pure non lo è il significato di upavajjakula. Potrebbe
significare "famiglia biasimevole" oppure potrebbe significare, come
suggerisce il commentario, "una famiglia che dev'essere visitata"41. Il
punto, com'è spiegato dal commentario, riguarderebbe la colpa
risultante da
una relazione eccessivamente intima con dei parenti (kulasaṃsaggadosa), una
colpa alla quale sembra che Channa fosse particolarmente incline.
Non possiamo escludere a priori la possibilità che,
nonostante il contesto
macabro, intorno al significato di upavajja
siano stati fatti oscuri giochi
di parole il cui senso ci è oggi difficile da percepire.
La spiegazione più
plausibile delle parole di Sāriputta riguardo la parentela [di
Channa]
è
tuttavia che egli stesse facendo riferimento ad un altra circostanza
in
relazione alla quale aveva già sentito usare il termine upavajja a proposito
di Channa. Così facendo si starebbe difendendo dalla
critica del Buddha che
lui dovrebbe già sapere il destino di Channa. Starebbe
quindi dicendo: "Beh,
sì, Channa mi ha detto che la sua morte sarebbe stata anupavajja, ma non ero
certo cosa volesse dire con ciò giacché ho sentito questa
parola usata a
proposito di lui in un altro contesto, a proposito delle visite che
faceva a
certe famiglie."
Il Buddha a questo punto conclude il discorso con la frase
citata all'inizio
che è stata presa quale un condono del suicidio di un
arahat. Penso che se si
mettesse la frase pronunciata dal Buddha nel suo contesto si
capirebbe
che il
Buddha non stia esonerando il suicidio, ma che stia invece fornendo
una
delucidazione del significato di anupavajja
a Sāriputta. Così è come
potrebbero essere tradotte le sue parole:
È vero, Sāriputta, ci sono
questi contribali
e parenti che ricevevano le visite (
upavajjakula)
[di Channa]
42,
ma non lo dico "
saupavajja"
per questo (
ettāvatā).
Per
"
saupavajja" intendo
colui
che depone il proprio corpo per prenderne un altro. Questo
non
è il caso di Channa. Channa ha usato il coltello senza
essere rinato (
anupavajja).
È
così che devi intendere [le mie parole], Sāriputta
43.
È da notare come nella versione del Saṃyutta citata sopra il termine anupavajja ha come contrario
non upavajja, come ci si
potrebbe
aspettare,
che è la parola normalmente usata per dire "senza biasimo", ma
con saupavajja, una parola
che sembra essere stata creata appositamente per
questo contesto essendo le sue due sole apparizioni in tutto il
canone
contenute nel brano appena citato. Questo sembra confermare
che upavajja
non sia qui usata nell'usuale senso di "biasimevole" e che le parole
anupavajja intesa come "non
rinato"
e saupavajja intesa come
"rinato"
siano usate come l'una il contrario dell'altra.
Interpretando il termine chiave anupavajja come suggerisce di fare
il
commentario, che penso quadri bene con il contesto, la frase
conclusiva
del
Buddha diventa non un'esonerazione del suicidio, ma una spiegazione
del
significato di una parola ambigua in un contesto che non ha nulla a
che
fare
con l'etica.
Il testo principale non dice nulla riguardo l'illuminazione
di
Channa.
Sappiamo che Channa morì
da arahat per deduzione a partire dall'ultima frase
pronunciata dal Buddha, per quanto non vi sia alcuna evidenza a
sostegno del
fatto che Channa fosse un arahat e nessun indizio sul quando lo
sarebbe
diventato.
Curiosamente il commentario si occupa soprattutto di questa
questione
temporale riguardo l'illuminazione di Channa e compie un notevole
sforzo per
dimostrare che Channa non era un arahat prima che si
suicidasse.
Tenta di
provare questa tesi in due modi.
Come prima cosa offre una spiegazione razionale
sull'insegnamento specifico
che Mahā Cunda aveva offerto a Channa. Il commentario ipotizza
che Mahā
Cunda avesse impartito il suo insegnamento perché,
dall'incapacità di Channa
di sopportare il dolore della malattia e dalla sua minaccia di
togliersi la
vita, aveva dedotto che egli fosse ancora una persona non illuminata
(puthujjana)44.
L'attribuire questa motivazione a Mahā Cunda è
speculazione, perché il testo non dice nulla sulle sue
motivazioni nella
scelta dell'insegnamento in questione. Né è mai
Channa detto nel testo una
"persona non illuminata" (puthujjana).
In
secondo luogo il commentario ricostruisce gli ultimi momenti della
vita
di Channa per rendere evidente come l'illuminazione fosse stata
conseguita
nell'istante estremo:
"Usò il coltello" vuol dire che
usò un
coltello che toglie la vita: si tagliò la gola. Ora, in
quel preciso momento la paura della morte s'impossessò di lui e
sorsero le prime avvisaglie della sua prossima vita (gatinimitta). Sapendosi
ancora non illuminato si sentì scosso (saṃviggo)
e sorse
l'introspezione. Penetrata la realtà delle conformazioni
mentali (sa"nkhāra)
conseguì lo stato di arahat ed entrò nel nirvana
simultaneamente alla sua morte (samasīsī
hutvā).
Il commentario sostiene quindi che Channa fosse un samasīsin ("parimenti
diretto"), cioè una persona che muore e che consegue il nirvana
simultaneamente45.
Anche
questa ricostruzione della
morte di
Channa è
speculativa, perché non ci sono forniti tali dettagli da nessuna
parte nel
testo. La conclusione della Horner sulla versione del commentario
degli
eventi è: "I fatti non potevano essere noti e si direbbe un
tentativo
piuttosto disperato di elaborare una ragione soddisfacente per il
suo
presunto
conseguimento."46
Mentre
si direbbe vero che la
ricostruzione
del
commentario non possa mai essere verificata, la possibilità di
conseguire un'
"illuminazione improvvisa" in un momento critico "tra il ponte e il
ruscello,
[tra] il coltello e la gola" - come si esprime Robert Burton
in The
Anatomy
of Melancholy [L'anatomia della melanconia]47 - è
riconosciuta nelle
fonti Pali e ci sono molti esempi di persone che conseguono
l'illuminazione
proprio quando stanno per uccidersi48. La
dichiarazione del
commentario
che Channa non fosse un arahat fino al momento della sua morte è
largamente
accettata nella letteratura successiva. Il Wiltshire è
dell'opinione che
nessuno dei tre suicida fosse un arahat prima della morte. A
proposito del
caso di Godhika scrive:
Avviene così che negli altri
casi di
suicidio di bhikkhu, quelli di Channa e di Vakkali, è pure
scritto chiaramente come anche loro non fossero arahat fino al
momento
della loro morte, dopo la quale il Buddha li dichiarò
parinibbuta49.
Più della discussione sulla verità o
falsità della ricostruzione degli
eventi del commentario riveste tuttavia interesse la questione della
ragione
per la quale il commentario si dia tanto da fare per giungere alla
conclusione
che Channa non fosse un arahat. La ragione sembrerebbe essere
che
certi
aspetti del comportamento di Channa siano incompatibili con i
concetti
tradizionali sulla condotta di un arahat. In altre parole ci
dev'essere una
o più caratteristiche del comportamento di Channa che la
tradizione deve aver
trovato difficile poter associare ad un arahat. Penso che ci
siano tre cose
che il commentario possa aver trovato eccepibili.
La più ovvia è che la tradizione trova
semplicemente inconcepibile che un
arahat sia capace di suicidarsi. Per quanto ciò non sia
mai scritto nel testo
o nel commentario a proposito di questo episodio, è spesso
dichiarato altrove
che è impossibile che un arahat faccia un certo numero di cose,
la prima delle
quali è l'uccidere intenzionalmente un essere vivente50. Atti
di
uccisione
di qualsiasi genere non sono certamente in linea con il paradigma
canonico
dell'arahat calmo e sereno.
Abbiamo un'indicazione della seconda ragione per cui il
commentario possa
trovare scomoda la nozione che Channa sia stato un arahat prima del
suo
suicidio nella motivazione attribuita a Mahā Cunda perché questi
fornisse un'
omelia a Channa. Il commentario ipotizza che Mahā Cunda diede
il
suo
insegnamento perché vide che Channa era "incapace di tollerare
il dolore
intenso" e che cercava la morte per eluderlo. L'incapacità
di tollerare il
dolore dimostra una mancanza di autodominio che non è
compatibile con lo stato
di arahat. Il pericolo nell'assenza di autodominio è che
un monaco possa fare
cose indegne del suo stato e che quindi possa causare la perdita
della
stima
di cui l'ordine gode da parte della società. Sostenendo
che Channa non fosse
illuminato fino al momento estremo si salva la reputazione di cui
gode
la
figura dell'arahat dalla troppo umana debolezza di Channa di fronte
al
dolore.
La terza ragione perché il commentario possa aver trovato
da eccepire sul
suicidio di un arahat è di tipo settario. Il suicidio
tramite il digiuno
volontario (sallekhanā)
è una nota pratica jainista e il suicidio potrebbe
essere stato comune [anche] presso gli ājīvika51. Il
suicidio
di Channa
e degli altri due potrebbe essere stato troppo simile a tali
pratiche
tipicamente settarie e avrebbe forse potuto essere stato inteso come
uno
scomodo ritorno verso il sentiero tanto discreditato
dell'automortificazione.
Il rigetto del commentario del suicidio degli arahat potrebbe quindi
significare anche un'implicito rifiuto del jainismo52.
Ma quello che più di tutto colpisce, tuttavia, non
è quello che il
commentario dice, ma quello che non dice. Mi riferisco alla
completa assenza
di ogni discussione sull'etica del suicidio. Ci si
aspetterebbe
almeno un
richiamo alla terza pārājika
che era stata introdotta [nel codice di
disciplina monastica, NdT] proprio per impedire il suicidio da parte
dei
monaci53.
Quale
può essere la ragione di
questo
silenzio? Forse la
spiegazione più semplice è che il suicidio di Channa non
era considerato un
evento che potesse sollevare un qualsiasi problema morale o di
diritto:
solo
fosse stato Channa un arahat sarebbero sorti di tali quesiti.
Agli occhi del
commentatore Channa era una persona non illuminata (puthujjana) che, colpita
dal dolore e dall'agonia di una malattia grave, si toglie la
vita.
Considerato [il fatto] sotto questo punto di vista sorgono pochi
problemi
etici: il suicidio di persone non illuminate è un evento triste
ma piuttosto
comune. Sostenendo che Channa conseguì l'illuminazione
solamente dopo aver
intrapreso l'atto che l'avrebbe privato della vita, il commentario
evita
candidamente il dilemma di un arahat che infrange i precetti.
A cosa ci porta tutto ciò nei confronti del consenso
settantennale che il
suicidio sia permesso agli arahat? Penso che ci dia un buon
numero di motivi
per metterlo in dubbio. Il primo è che non c'è
ragione di ritenere che l'
esonerazione di Channa costituisca un precedente che introduca una
norma sul
suicidio. Questo perché l'esonerare dalla colpa non
è la stessa cosa che
condonare.
Secondo: ci sono ragioni basate sui testi per pensare che
l'apparente
esonerazione del Buddha non sia invece per niente
un'esonerazione. I problemi
legati a[lla corretta interpretazione de]i testi sono troppo
complessi
e non
sarebbe prudente trarne conclusioni definitive. Si può
osservare al volo che
l'evidenza contenuta nei testi che il suicidio possa essere permesso
è molto
maggiore nel cristianesimo che nel buddhismo. Ci sono molti
esempi di
suicidio nel vecchio testamento: questo non ha tuttavia impedito
alla
tradizione cristiana d'insegnare con ferma continuità54 che il
suicidio sia un
errore grave. In confronto i testi theravāda sono un modello
di
coerenza nel
loro rifiuto di ammettere la distruzione intenzionale
di vita.
Terzo: la tradizione dei commentari trova l'idea che un
arahat
si tolga la
vita come Channa ebbe a fare completamente inaccettabile.
Quarto: c'è una quarta considerazione logica che, per
quanto ovvia, sembra
sia stata trascurata nelle precedenti discussioni. Se
assumiamo,
come fa il
commentario e la letteratura successiva, che Channa non fosse un
arahat
prima
del suo suicidio, l'estrapolare da questo caso una regola che
ammetta
il
suicidio come una pratica ammessa per gli arahat è
fallace. La ragione perché
sia da ritenersi tale è che il suicidio di Channa era
- sotto
tutti i punti di
vista degni di nota - il suicidio di una persona non illuminata. La
motivazione, la deliberazione e l'intenzione che hanno preceduto il
suo
suicidio - tutto fino all'atto dell'afferrare la lama - tutto
ciò era stato
compiuto da una persona non illuminata. Il suicidio di Channa
non
può quindi
essere preso come un precedente valido per gli arahat per la
semplice
ragione
che lui stesso non lo era fino a dopo
ch'ebbe portato a termine l'atto di
suicidarsi.
Quinto e ultimo: il suicidio è ripetutamente condannato
nelle fonti
canoniche e non canoniche e va direttamente "contro la corrente"
degli
insegnamenti morali buddhisti. Un elenco di motivi per i quali
il
suicidio
è sbagliato si può trovare nei testi55 anche
se non
è sviluppata nessuna
obiezione di principio contro il suicidio. Questa non è
una cosa facile da
farsi, Schopenhauer non aveva completamente torto nel dichiarare che
le
motivazioni morali contro il suicidio "risiedano nel più
profondo [dell'animo]
e non sono scalfiti dall'etica ordinaria"56. In
precedenza ho
affermato
come la critica del suicidio quale "radice del male", ossia che il
suicidio
sia sbagliato a causa della presenza del desiderio o
dell'avversione,
sia
insoddisfacente in quanto conducente verso il soggettivismo.
L'obiezione più
profonda al suicidio mi sembra non si possa trovare in uno stato
emotivo dell'
agente, piuttosto trovo sia da ricercare in una qualche
caratteristica
intrinseca dell'atto del suicidio che lo renda moralmente
sbagliato. Credo,
tuttavia, che ci sia una maniera di conciliare i due modi di
affrontare
la
questione. Per farlo sarà necessario riconoscere
l'erroneità del suicidio
come risiedente nell'illusione (moha)
piuttosto che nelle "radici" emotive
del desiderio e dell'odio.
Considerato su queste basi il suicidio è da ritenersi
sbagliato in quanto
costituente un atto irrazionale. Questo non significa che
è attuato [solo]
quando l'equilibrio della mente è alterato, ma che è
incoerente nel contesto
degli insegnamenti buddhisti. E questo è da intendersi nel
senso di essere
contrario ai valori fondamentali buddhisti. Quello che per il
buddhismo ha
valore non è la morte, ma la vita57.
Il
buddhismo vede
la morte come un'
imperfezione, un difetto della condizione umana, una cosa che
dev'essere
superata piuttosto che ricercata. La morte compare nella prima
nobile verità
come uno degli aspetti primari della sofferenza (dukkha-dukkha). Una
persona che opti per la morte credendola una soluzione alla
sofferenza
dimostra un'incomprensione fondamentale della prima nobile
verità. La prima
nobile verità insegna che la morte è il problema, non la
soluzione. Il fatto
che la persona che commette il suicidio rinascerà e vivrà
di nuovo non è
importante. La cosa più rilevante [del suo gesto] è
che con l'esaltare la
morte egli abbia, nel suo cuore, abbracciato Māra. Da un punto
di
vista
buddhista questo è chiaramente irrazionale. Potendo quindi
considerare il
suicidio [un atto] irrazionale, sotto questo punto di vista si
può sostenere
che ci siano basi oggettive perché sia considerato moralmente
sbagliato.
❧❧❧ ❧❧❧ ❧❧❧
Vedasi anche:
Può l'uccidere un
essere vivente essere mai un atto di
compassione? [Can Killing a Living Being Ever Be an
Act
of
Compassion?]
37 pagine (221 KB) Scaricabile gratuitamente
Can Killing a Living Being
Ever
Be an Act of Compassion? Come
l'atto dell'
uccisione è analizzato nell'Abhidhamma e nei commentari pali, di
Rupert
Gethin.
Nella prima tradizione esegetica buddhista la nozione che
uccidere
intenzionalmente un essere vivente sia sbagliato si basa anche
sull'idea che
[in tali frangenti] certi stati mentali [negativi] siano presenti
nella
mente.
L'idea che uccidere un essere vivente possa essere una soluzione al
problema
della sofferenza va contro l'importanza posta dal buddhismo su
dukkha
quale
realtà [oggettiva]. Il coltivare un'attitudine amichevole
per affrontare la
sofferenza è visto come un metodo che apporta effetti benefici
per sé stessi
come per gli altri in situazioni nelle quali può sembrare che la
compassione
debba [invece] portare ad uccidere.
❦❦❦
- Wiltshire, Martin G. (1983) "The 'Suicide'
Problem in the Pāli Canon,", Journal of the International
Association
of Buddhist Studies ("Il problema del 'suicidio' nel canone
Pali",
Giornale dell'Associazione internazionale di studi buddhisti) 6,
pagg. 124-140. Sono grato a Lance Cousins, Peter Harvey e
Richard
Gombrich per i loro commenti su una prima bozza di questo
saggio.
Una discussione più esauriente sul suicidio si potrà
trovare in un libro di prossima pubblicazione sull' etica
buddhista di
Peter Harvey pubblicato dalla Cambridge University Press dal
titolo: An
Introduction to Buddhist Ethics: Foundations, Values and Issues
(Introduzione all'etica buddhista: fondamenti, valori e
problemi) e
sono grato all'autore per aver dato un'occhiata ad una copia
preliminare dei capitoli rilevanti. ritorno
- La letteratura sul suicidio include: L. de
La
Vallee Poussin "Suicide (Buddhist)" ne: The Encyclopaedia of
Religion
and Ethics, edizioni James Hastings (Edinburgh, Clark: 1922)
XII,
24-26; Woodward, F.L. (1922) "The Ethics of Suicide in Greek,
Latin and
Buddhist Literature," Buddhist Annual of Ceylon, pagg. 4-9;
Gernet,
Jacques (1960) "Les suicides par le feu chez les bouddhiques
chinoises
de Ve au Xe siecle," Melange publies par l'Institut des Hautes
Études Chinoises II, pagg. 527-558; Filliozat, Jean (1963) "La
Morte Volontaire par le feu en la tradition bouddhique
indienne,"
Journal Asiatique 251, pagg. 21-51; Jan, Yün-hua (1964-5)
"Buddhist Self-Immolation in Medieval China," History of
Religion 4,
pagg. 243-268; Rahula, W. (1978), "Self-Cremation in Mahāyāna
Buddhism," in Zen and the Taming of the Bull, Gordon Fraser,
London;
Van Loon, Louis H. (1983) "Some Buddhist Reflections on
Suicide,"
Religion in Southern Africa 4, pagg. 3-12; La motte, E. (1987)
"Religious Suicide in Early Buddhism," Buddhist Studies Review
4,
pagg. 105-126 (prima pubblicazione in francese del 1965);
Harvey, Peter
(1987) "A Note and Response to 'The Buddhist Perspective on
Respect for
Persons'," Buddhist Studies Review 4, pagg. 99-103; Becker, Carl
B.
(1990) "Buddhist views of suicide and euthanasia," Philosophy
East and
West 40, pagg. 543-556; Becker, Carl B. (1993), Breaking the
Circle:
death and the afterlife in Buddhism. Carbondale: Southern
Illinois
University Press; Stephen Batchelor, "Existence, Enlightenment
and
Suicide: the Dilemma of Ñāṇavīra Thera," saggio inedito esposto
al: The Buddhist Forum, School of Oriental and African Studies,
università di Londra, 8 dicembre 1993. Woodward cita la
discussione sull'episodio di Channa in "Edmunds, Buddhist and
Christian
Gospels, ii, 58" ma non mi è riuscito d'identificare questo
brano. Per una trattazione più generale si veda Thakur,
Upendra (1963), The History of Suicide in India. New
Delhi:
Munshiram Manoharlal; Suicide in Different Cultures, ed. Norman
L.
Farberow, Baltimore: University Park Press, 1975; Young,
Katherine K.
(1989), "Euthanasia: Traditional Hindu Views and the
Contemporary
Debate," nelle edizioni Hindu Ethics. Purity, Abortion, and
Euthanasia. Harold G. Coward, Julius J. Lipner, e Katherine K.
Young,
McGill Studies in the History of Religions, edizioni Katherine
K.
Young, Albany, NY: State University of New York Press, pagg.
71-130,
specialmente pagg. 103-7. C'è dell'ulteriore letteratura
sul suicidio rituale in Giappone (seppuku),
ma considero questa pratica legata al codice giapponese dei
Samurai che
poco deve al buddhismo (si direbbe che il Becker sia in
disaccordo in
proposito). ritorno
- 1922:25. In una voce enciclopedica più
recente Marilyn J. Harran scrive: "Il buddhismo nelle sue varie
forme
afferma che, anche se il suicidio come sacrificio di sé stessi
possa essere appropriato per chi è un arahat, una persona che ha
conseguito l'illuminazione, sia lo stesso da ritenersi
un'eccezione
alla regola" s.v. "Suicide (Buddhism and Confucianism)" ne: The
Encyclopedia of Religion, editore responsabile Mircea Eliade
(New
York: Macmillan), vol. 14 pag. 129. ritorno
- 1922:8. ritorno
- Idee di questo tipo con qualche variazione
sono esposte da Poussin (1922), Wiltshire (1983), van Loon
(1983),
Lamotte (1987), Taniguchi, Shoyu (1987) "A Study of Biomedical
Ethics
from a Buddhist Perspective", tesi di master inedita, Berkeley:
Graduate Theological Union and the Institute of Buddhist
Studies, pagg.
86-89, Young (1989), Florida, Robert E. (1993) "Buddhist
Approaches to
Euthanasia," Studies in Religion/ Sciences Religieuses 22, pagg.
35-47, pag.41. ritorno
- 1983:134. ritorno
- A proposito dei criteri della valutazione
morale nel buddhismo si veda Peter Harvey "Criteria for Judging
the
Unwholesomeness of Actions in the Texts of Theravāda Buddhism,"
Journal
of Buddhist Ethics 2 1995: pagg. 140-151. Si veda anche
Keown, Damien (1995), Buddhism & Bioethics (Londra:
Macmillan),
pagg. 37-64. ritorno
- Si può obiettare come sia impossibile
assassinare senza desiderio od odio. A prescindere da
quanto
ciò possa essere psicologicamente vero, la possibilità
teoretica che gli omicidi privi di desiderio siano considerabili
non
immorali rivela l'inadeguatezza della tesi soggettivista.
Un
altro difetto di tale tesi è che la gravità degli omicidi
non sarebbe funzione di altro che della quantità di desiderio
presente. Un "crimine passionale" sarebbe quindi molto più
grave dello sparare a caso da un'automobile in corsa. Il
fatto
che i tribunali spesso esprimano un parere discordante dovrebbe
far
dubitare di una tale conclusione. ritorno
- Così si sostiene in Miln. 195 segg. ritorno
- Così è ipotizzato, ad esempio,
da Florida, Robert E. (1993): "Buddhist Approaches to
Euthanasia,"
Studies in Religion/Sciences Religieuses 22, pagg. 35-47, pag.
45.
Confr. Poussin: "Nel caso del "Sākyamuni abbiamo a che
fare con
una morte volontaria" (op cit). Dobbiamo tuttavia tenere a
mente
che il Buddha respinse la disponibilità mostrata da Māra nei
suoi confronti all'inizio della sua carriera (D.ii.102), cosa
che fece
di nuovo tre mesi prima della sua morte (D.ii.99). ritorno
- La storia della tigre affamata si trova
nel
Jātaka-māla e nel Suvarṇaprabhāsottama-sūtra. ritorno
- Si veda Fairbairn, Gavin J. (1995):
Contemplating Suicide, Londra: Routledge, pagg. 144 e segg.
Fairbairn
avanza la tesi che il seppuku
non sia un suicidio perché il samurai non intende porre fine
alla propria vita ma solo di eseguire fino in fondo il suo
dovere. ritorno
- Ad esempio S.v.344 (Dīghāvu); S.iv.55,
M.iii.263 (Channa); S.iii.119 (Vakkali); S.iii.124 (Assajji);
M.iii.258, S.v.380 (Anāthapiṇḍika). ritorno
- V.5.230(167):2. bhagavatā kho āvuso
gilānupaṭṭhānaṃ vaṇṇitaṃ. Citazioni in questo formato
possono
trovarsi nell'edizione BUDSIR del Tipiṭaka thailandese su
CD-ROM.
La citazione che abbiamo qui fornito proviene dal volume V, pag.
230,
paragrafo (o particola) 167, linea 2. ritorno
- Non è chiaro se Godhika stesse
soffrendo di una qualche malattia oppure no. ritorno
- Nel caso di Channa il punto 2 manca e
Sāriputta e Mahā Cunda gli fanno visita di loro propria
iniziativa. ritorno
- 1983:132. ritorno
- Lo stesso può dirsi delle 137 volte
in cui compare il termine kālame
akāsi ("morì"). ritorno
- Intendo questo (come fa il commentario)
nel
senso letterale così da significare che è stato
effettivamente usato un coltello (o un oggetto simile
affilato).
Il commentario dichiara che Channa "rescisse la sua canna del
vento" (kaṇṭhanālaṃ chindi).
È
possible che "usando il coltello" fosse una locuzione che
denotasse il
suicidio per qualsiasi mezzo ma ritengo ciò improbabile dato
che, come nota il Wiltshire (1983:130) un rasoio faccia parte
degli
"effetti" monastici (sebbene non sembra che fosse chiamato sattha). Sembra
probabile che
"usando il coltello" sia da intendere nel senso letterale del
termine
perché il laico che commette il suicidio in M.ii.109 e segg. non
è detto abbia "usato il coltello" ma di essersi tagliato o di
essersi squarciato (attānaṃ
upphālesi). ritorno
- 1983:132. ritorno
- Altri suicidi reperibili nel canone
includono, nel Vinaya, quelli di monaci i cui nomi non sono
riportati
la morte dei quali portò alla promulgazione della
terza pārājika. In M.ii.109segg. (vedasi sopra) un uomo
uccide
sua moglie e poi sé stesso perché non possano essere
separati. Casi di tentato suicidio conducente
all'illuminazione
includono quelli del monaco Sappadāsa nel Theragāthā (408) e
della
monaca Sīhā nel Therīgāthā (77) (entrambi discussi da Sharma,
1987:123 segg. Confr. Rahula 1978:22segg.). In Ud. 92 e
segg.
l'anziano arhat Dabba si libra nell'aria e svanisce in una
nuvola di
fumo. C'è un brano simile su Bakkula in M.iii.124-8. ritorno
- Mā bhāyi Vakkali -- apāpakaṃ te maraṇaṃ
bhavissati apāpikā kālakiriyā. ritorno
- Questo può essere inteso
semplicemente come una rassicurazione a Vakkali che non abbia
nulla da
temere dalla morte, oppure una predizione che morirà come
arahat. ritorno
- Kindred Sayings, vol. IV pag.33.
Nel suo saggio introduttivo alla traduzione del Majjhima, la
Horner
sembra supporre che i compilatori del canone abbiano in realtà
alterato il testo per poter esonerare Channa. A proposito
della
frase esoneratoria del Buddha scrive: "gli fanno [al Buddha]
sanzionare
l'atto indegno del povero piccolo sofferente" (pag. xi.). ritorno
- L'uso del termine "biasimevole" è
tuttavia insolito. Il Buddha non indica altrove quanti
sono
rinati come "biasimevoli". ritorno
- Ad esempio: quando gli è chiesto il
parere sulla pratica della preghiera rivolta verso le sei
direzioni nel
Sigālovāda-sutta, egli sposta abilmente il contesto sulle
relazioni
sociali. ritorno
- Negli insegnamenti cattolici questa
distinzione è chiara. 'La dichiarazione sull'eutanasia'
preparata dalla Sacra Congregazione della Dottrina della Fede
dichiara:
"Causare intenzionalmente la propria
morte, o suicidio, è quindi tanto sbagliato quanto l'omicidio -
sebbene, com'è generalmente accettato, in talune circostanze
siano presenti fattori psicologici che possono diminuire la
responsabilità o anche eliminarla completamente" (Boston: St.
Paul's Books and Media, 1980), pag.7. ritorno
- Questo è simile alla reazione di
Cristo di fronte alla moglie adultera: difendendo la donna con
le
parole: "Neppure ti condanno" (John 8, 11), Cristo non sta
ammettendo
la liceità dell'adulterio ma sta dimostrando compassione per la
donna che ha peccato. ritorno
- 1983:132. ritorno
- Nel canone compaiono tre Channa: un paribbājaka, l'auriga di
Gotama e
l'anziano (thera) che
compie
il suicidio. Si possono trovare dei dettagli in DPPN. ritorno
- Sutta 144. ritorno
- Nel Majjhima-nikāya è esposta nella
"Divisione della base a sei parti" (Salāyatanavagga), la quinta
ed
ultima divisione degli "ultimi cinquanta" (upari-paṇṇāsa).
Qui,
è il secondo dei cinque discorsi in stile "esortativo" (ovāda) che formano la prima
parte
della divisione. Nel Saṃyutta-nikāya si trova nel
Salāyatana-
saṃyutta, dove le ragioni per la suo inclusione sembra essere
legata
al brano in cui Sāriputta espone degli insegnamenti a Channa
sulle sei
consapevolezze-e-sensi [S.18.72(107):10segg.]. ritorno
- ābhādhiko hoti dukkhito bālhagilāno. ritorno
- La natura della malattia di Channa non
è facile da diagnosticare partendo qua questi sintomi.
Un'opinione medica che ho ricevuto recita così: "Il dolore al
capo è tipico dell'emicrania, che è universale e
conosciuta da secoli. Altre cause possono essere un tumore
intracraniale che abbia innalzato la pressione intracraniale, ma
questo
è di solito accompagnato dal vomito e da sintomi specifici
neurologici che si direbbero assenti in questa
descrizione. Il
dolore addominale è più difficle da spiegare. La
peritonite causa questo tipo di dolore acuto e ininterrotto e
può essere causato da qualsiasi cosa provochi un' infezione
peritoneale come un'appendicite esplosa, un'ulcera perforata,
una
perdita intestinale ecc. Un'altra causa di tali dolori può
essere l'intestino strangolato, spesso causato da problemi
vascolari
nelle persone anziane oppure da contorsioni delle interiora con
conseguente perdita di flusso sanguigno. Una terza causa
in tale
regione del mondo può essere un'infezione intestinale quale il
colera o il tifo, spesso in concomitanza di diarrea. Il
dolore
generale per tutto il corpo è la patologia più difficile
di tutte [da diagnosticare]. È tipico della mialgia, un
dolore dei muscoli che può essere scatenato da un'infezione
generalizzata acuta, spesso di origine virale, e in malattie
metaboliche rare del muscolo nelle quali certi enzimi sono
carenti. La combinazione [dei tre sintomi dolorifici] è
strana." Sono grato a mio fratello il dottor Paul A. Keown
per la
sua opinione (comunicazione personale del 23 settembre
1995). Una
seconda opinione, per la quale devo esprimere la mia gratitudine
al
dottor Steven Emmett, è esposta in questi termini: "Sia il
dolore alla testa che quello addominale sono 'acuti', il che fa
propendere ad un fenomeno vascolare, ma il dolore diffuso in
tutto il
corpo punta invece il dito verso un'inezione eziologica, per
quanto
qualsiasi grave afflizione possa produrre simultaneamente dolori
corporei diffusi; in mia opinione si dovrebbe ipotizzare lupus
eritematoso, infezione virale e forse sifilide, per quanto non
sappia
se fosse presente in quest'area del mondo in quell'epoca e quali
siano
le possiblità che dei sant'uomini la possano contrarre
- sempre
che le due persone avessero la stessa malattia nello stesso
periodo
(non
so quanto distanti temporalmente siano [le vicende] dei due
sutta) - ma
se così fosse allora la causa sarebbe da ricercarsi in una
malattia infettiva virale, ma anche forse batterica"
(comunicazione
personale del 14 settembre 1995). ritorno
- Satthaṃ āvuso Sāriputta āharissāmi
nāvakaṇkhāmi jīvitan ti. ritorno
- Māyasmā Channo satthaṃ āharesi,
yāpetāyasmā
Channo yāpentaṃ mayaṃ āyasmantaṃ Channaṃ icchāma. ritorno
- Nella sua traduzione del brano del
Majjhima la Horner sembra supporre che Channa consideri la
precedente
riverenza per il maestro come una giustificazione dell'atto che
si sta
preparando a compiere: "No, amico Sāriputta. Non mi manca il
cibo
adeguato. Ne ho. Non mi mancano vestiti
adeguati. Ne
ho. Non mi mancano attendenti idonei. Ne ho.
Io
stesso, amico, ho atteso al Maestro per molti lunghi giorni
prestandogli servizio in delizia, non in tedio. Questa,
amico,
è la cosa giusta da farsi per un discepolo. 'Nella misura
in cui ha servito il Maestro con un servizio reso in delizia,
non in
tedio, non biasimevole (si deve rendere conto) dell'uso del
coltello
che intende fare Channa': così devi intendere, amico
Sāriputta." Kindred Sayings, vol.II pag.31. Il testo
recita: Etaṃ hi āvuso sāvakassa paṭirūpaṃ satthāraṃ paricareyya
manāpeneva no amanāpena taṃ anupavajjaṃ channo bhikkhu satthaṃ
āharissatiti evametaṃ āvuso sāriputta dhārehīti. L'
interpretazione della Horner dipende dall'aver inteso il
costrutto yaṃ - taṃ come una frase separata
avente
il senso di: "Nella misura in cui - fintanto che".
Tuttavia taṃ non è
presente in tutti
i manoscritti e comunque sarebbe più plausibile esprimerlo
assumendo la clausola yaṃ
una
correlativa alla Etaṃ
iniziale pittosto che a quella taṃ,
assumendone il senso quale illustrazione di cosa sia "opportuno"
(paṭirūpa) che un
discepolo faccia
piuttosto che quale annuncio di una condizione oggettiva che è
poi giustificata dalla clausola taṃ.
I bhikkhu Ñā"namoli e Bodhi traducono diversamente dalla
Horner nel loro The Middle Length Discourses of The Buddha
(Wisdom,
1995). ritorno
- MA.10.237(390). Sono grato a Lance
Cousins per le sue osservazioni sul fatto che il commentario
sembra
assumere che il termine derivi dalla radice VRAJ (andare,
camminare,
procedere). Questo termine porta ad associazioni con la
rinascita: "con punar
'tornare alla vita'" (Monier Williams, s.v. VRAJ).
Un'altra
derivazione possibile è da PAD. Si veda CPD s.v. "an-upavajja".
Woodward
suggerisce: "Sa-upavajjo
(colpevole: in realtà 'assistito da un attendente')" (1922:8). ritorno
- Nanu te Sāriputta channena bhikkhunā
sammukhāya eva anupavajjatā byākatā ti. ritorno
- DPPN s.v. "Channa. ritorno
- Upavajjakulānīti
upasa"nkamitabbakulāni. Questo sembrerebbe confermare la
derivazione dal sanscrito upavrajya,
"essere andati a". Confr. CPD "upa-vajja." ritorno
- Oppure, "che sono senza biasimo." ritorno
- Honti hete Sāriputta Channassa bhikkhuno
mittakulāni suhajjakulāni upavajjakulānīti. Na kho panāhaṃ
Sāriputta ettāvatā saupavajjoti vadāmi. Yo kho Sāriputta
imañca kāyaṃ nikkhipati aññañca kāyaṃ
upādiyati tamahaṃ saupavajjoti vadāmi. Taṃ Channassa
bhikkhuno
natthi. Anupavajjaṃ Channena bhikkhunā satthaṃ āharitanti
evametaṃ Sāriputta dhārehīti [S.18.74(111)]. ritorno
- Questa spiegazione è esposta nelle
sue elucidazioni sulla parola "quindi" ["per cui"] (tasmā). "Quindi"
significa
che [questo insegnamento è stato dato] perché Channa era
incapace di sopportare il forte dolore e diceva che avrebbe
usato il
coltello. Il venerabile Channa non era un illuminato (puthujjana), quindi Mahā
Cunda gli
dice di prestare attenzione al suo insegnamento. (Tasmāti
yasmā
māraṇantikavedanaṃ adhivāsetuṃ asakkonto satthaṃ āharāmīti
vadati,
tasmā. Putthujano āyasmā, tena idampi manasikarohīti
dīpeti.) ritorno
- Lo stesso si sostiene a proposito di
Vakkali
e di
Godhika. Il concetto di samasīsī
è sfruttato intensamente in questi casi. Buddhaghosa
spiega che ci sono tre tipi di samasīsī:
1) Iriyāpatha- samasīsī:
una
persona che sceglie una delle quattro posture [di meditazione] e
si
risolve di non cambiarla fino a che non consegua lo stato di
arahat. Il cambio di postura e il conseguimento dello
stato di
arahat avvengono nello stesso momento. 2) Rogasamasīsī: una persona
che
guarisce da una malattia e consegue lo stato di arahat nello
stesso
momento. 3) Jīvita-samasīsī:
una persona che distrugge gli āsavas
(āsavakkhaya) nello
stesso
momento in cui finisce la sua vita. È il terzo caso che
è qui contemplato. [SA.11.175(159):6-11]. ritorno
- Kindred Sayings V. pag.33 ritorno
- Robert Burton, The Anatomy of Melancholy,
Parte 1, Sezione 4, Membro 1. Citato in Battin, Margaret
Pabst
(1982), Ethical Issues in Suicide. Englewood Cliffs, NJ:
Prentice Hall, pag. 53. ritorno
- Ci sono casi di "Illuminazione
improvvisa"
anche nei testi pāli oltre che in quelli Mahāyāna. Rahula
ne
scrive: "Esempi di questo tipo di illuminazione 'improvvisa' o
di un
'subitaneo' conseguimento dello stato di arahat non mancano
nemmeno nei
commentari pāli." Ne cita tre esempi, l'ultimo dei quali
dal
commentario del Theragāthā che è rilevante per la nostra
discussione: "Il thera Mahānāma, che viveva su una montagna, era
completamente disgustato della sua vita perché non gli era
riuscito di liberarsi di tali pensieri impuri quale la lussuria
e
proprio nel momento in cui stava per suicidarsi saltando dalla
sommità di una rupe conseguì lo stato di arahat."
Rahula, W. (1978), Zen and the Taming of the Bull. Towards
the
Definition of Buddhist Thought, Londra: Gordon Fraser,
pag.22.
In S.v.69 segg. una certa persona ottiene l'illuminazione nel
momento
della morte. ritorno
- 1983:134. Il Wiltshire non
specifica
dove ciò sia "scritto chiaramente". Infatti
- come
già notato - il testo non si esprime in materia né in un
verso né nell'altro e non vi è nessuna inconsistenza riguardo il
punto se fosse o no Channa un arahat prima che cominciasse a
contemplare il suicidio. Poussin, nella sua voce sul
suicidio
nella Encyclopaedia of Religion and Ethics elenca i suicidi di
Vakkali e Godhika quali esempi di suicidi di arahat, ma non
fornisce
nessuna prova del fatto che lo fossero. Tuttavia, nel suo
conciso
a proposito del suicidio di Godhika scrive: "Godhika conseguì lo
stato di arhat appena dopo l'aver cominciato a tagliarsi la
gola." Questo è difficile sostenere sia il suicidio di un
arhat. Ma quello che sorprende di più è però
l'assenza di ogni menzione a Channa in tutta la sua trattazione.
ritorno
- D.iii.235. In D.iii.133 sono elencate in
numero di nove e il commentario sostiene che persino uno
entrato-nella-corrente non sia capace di tali cose.
(DA.iii.913). ritorno
- a proposito di Gosāla il Poussin cita
Uvāsagadasāo, app. ii. pag. 23 e commenta: "Il suicidio è
permesso agli asceti che hanno raggiunto il massimo grado di
perfezione" (1922:25). ritorno
- Questa tesi, che non posso sviluppare in
questa sede, mi è stata suggerita dall'articolo di Richard
Gombrich: "The Buddha and the Jains. A Reply to Professor
Bronkhorst" (Asiatische Studien XLVIII, 4, 1994:
1069-1096). I
casi di suicidio del canone Pali possono costituire dei casi
interessanti in sostegno della teoria di Bronkhorst sugli
elementi di
"non autenticità" nei testi buddhisti. Il criterio per
giudicare tali elementi è il seguente: "Forse la sola speranza
che si potrà mai avere d'identificare gli elementi non autentici
dei testi buddhisti è costituita dai casi speciali nei quali si
tramanda che il Buddha abbia respinto certi elementi che pure
sono
riusciti a farsi strada giungendo nei testi e, in più, sono
chiaramente identificabili come appartenenti ad uno o più
movimenti [ascetici] non buddhisti." (citato dal Gombrich, pag.
1070). I casi di suicidio si direbbero soddisfare questi
requisiti in ogni cosa: il suicidio è respinto dal Buddha (nel
Vinaya e altrove, si veda nota successiva), è trapelata nei
testi (nei tre casi di suicidio) ed è identificabile come una
pratica jainista. Che questi casi possano costituire una
prova a
favore della tesi del Bronkhorst è però tutta un'altra
faccenda. ritorno
- Vin. iii.71. ritorno
- Certamente dai tempi di sant'Agostino in
poi. I casi anomali nell' Antico Testamento sono spiegati
da
sant'Agostino come eccezioni dovute da un ordine diretto
proveniente da
Dio. A proposito del suicidio nella chiesa antica vedasi
Amundsen, Darrel W. (1989), "Suicide and Early Christian
Values," in
Suicide and Euthanasia, ediz. Baruch A. Brody, Dordrecht,
Boston,
Londra: Kluwer Academic Publishers, pagg. 77-153. Sul
giudaismo e
il cristianesimo si veda Droge, A.J. e J.D. Tabor: A Noble
Death:
Suicide and Martyrdom among Christians and Jews in Antiquity.
San
Francisco: Harper Collins, 1991. A proposito dell'
antichità classica si veda van Hooff, Anton J.L. From
Autothanasia to Suicide. Self-Killing in Classical
Antiquity. Londra: Routledge, 1990. ritorno
- I motivi per i quali il buddhismo debba
essere [ritenuto] contrario al suicidio includono i
seguenti: 1)
È un atto di violenza e quindi contrario al principio di ahiṃsā; 2) È contraio
al primo precetto; 3) È contrario alla terza pārājika (confr. Miln.
195);
4) Si dichiara che: "gli arahant non accorciano la loro vita"
(na ...
apakkaṃ pātenti) Miln. 44, confr. D.ii.32/DA.810 citato dalla
Horner
(Milinda's Questions, I.61n.). Sāriputta dice che che un
arahat
né desidera la morte né desidera non morire:
avverrà quando avverrà (Thag. vv.1002-3). 5) Il
suicidio distrugge una cosa di grande valore nel caso di una
vita umana
virtuosa ed impedisce a tale persona di agire per il bene degli
altri
(Miln. 195segg.) Il Wiltshire sostiene che l'altruismo sia
citato
anche nel Pāyāsi Sutta come una ragione perché non ci si debba
togliere la vita (1983:131). A proposito della discussione
in
questo testo (D.ii.330-2) commenta: "Queto è il solo brano del
Sutta Piṭaka in cui il suicidio sia trattato in termini astratti
e lo
stesso digressivi" (1983:130). Kassapa dichiara che i
virtuosi
non debbano uccidersi per beneficiare dei buoni risultati del
loro
karma perché questo priverebbe il mondo della loro influenza
positiva (D.ii.330f). 6) Il suicidio porta ad una fine
prematura
la vita. Come scrive il Poussin (op cit): "Un uomo deve
vivere il
tempo che gli è concesso ... A tal fine il Buddha espone a
Pāyāsi la similitudine della donna che si squarcia il corpo per
vedere
se il bambino che ha dentro di sé è maschio o femmina"
(D.ii.331). 7) L'autoannichilazione è una forma di vibhava-taṇhā. 8)
L'autodistruzione è associata a pratiche ascetiche che sono
respinte in quanto "Il buddhismo ha metodi migliori di
infrangere la
lussuria e di distruggere il peccato" (Poussin, op cit).
9)
È empiricamente evidente come dimostrato da I Tsing. in
proposito scrive il Poussin: "Il pellegrino I-tsing dice che i
buddhisti indiani si astengono dal suicidio e, in generale,
dall'auto-
tortura" (op cit). 10) Come scritto sopra, la prima
reazione di
Sāriputta è stata di dissuadere Channa con i termini più
forti dall' usare il coltello. La reazione di Sāriputta fa
pensare che il suicidio fosse considerato tra i discepoli più
anziani del Buddha una possibilità neppure degna di essere presa
in considerazione. ritorno
- Foundation of Morals, sezione/paragrafo
5,
citato in Battin, Margaret Pabst (1982), Ethical Issues in
Suicide,
Englewood Cliffs, NJ: Prentice Hall, pag. 74. ritorno
- A proposito della vita come un valore
fondamentale nel buddhismo si veda Buddhism & Bioethics,
pagg.
44-50. ritorno
http://www.buddhistethics.org,
adesso http://blogs.dickinson.edu/buddhistethics/
Volume 3 1996
Ultima revisione della traduzione: 24 aprile 2013.
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