Commento e traduzione dell'articolo originale pubblicato su: http://www.buddhistchannel.tv/index.php?id=10,10413,0,0,1,0
Tradotto da: Alessandro Selli il 05 ottobre 2011
Traduco una recensione
del libro "The Bodhisattva's
Brain: Buddhism Naturalized" di Owen Flanagan, che è
però ben più di una semplice recensione. Tocca
un punto cruciale su cui, secondo me, molti buddhisti occidentali si
scontrano poco costruttivamente rimanendone confusi: l'approccio
filosofico-materialista al buddhismo scevro delle incrostazioni
culturali asiatiche che vi si sono depositate sopra nei millenni.
Che quello che oggi è detto buddhismo, sotto qualunque
forma si presenti, sia il risultato dell'amalgama, più o meno
coerente ed "elegante", di idee, dottrine, principi, credenze e
tradizioni contrastanti e spesso incongruenti tra di loro credo che
molti pochi si sentirebbero in grado di negare. Gli stessi
canoni e le formulazioni più antiche disponibili degli
insegnamenti del Maestro e dei suoi discepoli, coevi o successivi,
mostrano un non indifferente apporto di temi squisitamente
materialisti (dottrina dell'assenza di un'anima, assenza della
figura di un dio creatore e di un mito cosmogonico, esaltazione
della volontà e della virtù dei singoli come solo
artefice del bene e del male che ciascuno può operare e
causare, dottrina della concatenazione di causa ed effetto come
cardine del mondo sia fisico che mentale e morale, che insieme alla
dottrina dell'impermanenza è considerabile una formulazione
di un principio evoluzionista cosmico ecc.) e temi chiaramente
mitologici o agiografici (le storie delle reincarnazioni e
rinascite, i viaggi dei monaci nei mondi celesti ultraterreni,
miracolate varie ecc.).
Non intendo adesso dedicarmi all'antico dibattito su quali di
questi argomenti rispecchi il vero insegnamento del Buddha Sakyamuni
e quali siano invece gli apporti successivi. Per quanto
determinare, se possibile, una risposta conclusiva a questo problema
avrebbe un'indubbio impatto sulla considerazione che si può
avere dell'acume intellettuale della persona che ha fondato il cuore
dottrinale e sociale del buddhismo, considero il farlo inutile o,
all'estremo, dannoso ai fini del tema che voglio trattare adesso.
Oltre alla constatazione che il Tathagata abbia riconosciuto
che tanto la sua stessa dottrina quanto la società monastica
che fondò siano naturalmente oggetto a quel divenire che
è un pilastro del suo insegnamento, c'è da constatare
che tutta la storia del buddhismo documenta una spesso pronunciata
inclinazione delle varie scuole ad evolversi in più modi ed
espressioni e a dividersi in numerose correnti di pensiero, molte
delle quali si sono nel tempo estinte mentre altre altre invece
hanno finito per trovare una società che l'ha ben accolta ed
entro la quale è fiorita.
Come mi è stato una volta fatto notare in un monastero
dov'ero andato in visita, una cosa curiosa degli occidentali (non
solo italiani) che si accostano al buddhismo è che la
maggioranza ne adotta subito tutte o quasi le formule rituali, anche
quelle che sono retaggio di una precisa società asiatica
piuttosto che della dottrina canonica buddhista in se. A volte
addirittura si dimostrano entusiasti per certi aspetti folkloristici
locali che non hanno nulla a che fare con la dottrina buddhista o
che vi sono in stridente contrasto (ad esempio le pratiche
divinatorie). Molti dei seguaci occidentali si ribellano
piccati alle proposte che a volte sono avanzate di ripulire la
pratica buddhista di certe espressioni folkloristiche locali
asiatiche che non hanno senso ne dottrinalmente ne nel contesto
sociale occidentale. Eppure nel contempo si fa molto parlare
di un venturo e atteso buddhismo occidentale, attesa che si scontra
con l'atteggiamento di rigoroso conservatorismo dei più, che
reagiscono con discorsi tipo: "Chi
sei tu per dire che questa pratica, esercitata per secoli in
questa tradizione, dev'essere abbandonata? Chi ti credi di
essere? Se vuoi crearti il tuo proprio buddhismo personale
fai pure, ma noi seguiamo il buddhismo XYZ, insegnato nei secoli
da fior di eccelsi Maestri/Bodhisattva/Arahant e Patriarchi.".
Reputo per questo che le considerazioni di Owen Flanagan siano
destinate ad avere poco seguito, ad essere accolte da una minoranza,
non essendo il suo buddhismo coincidente con nessun "vero" buddhismo
tradizionale asiatico. Eppure, ai miei occhi, se mai ci
può essere un buddhismo occidentale degno di questo nome, non
può che essere un buddhismo che ricalchi il solco
materialista di cui parla Owen Flanagan, un materialismo che pure
è stato in alcune epoche storiche propugnato almeno in India
e che ha sicuramente avuto un ruolo non secondario nel forgiare gran
parte della dottrina classica buddhista.
Trovo che sarebbe da puntualizare cosa intenda l'Autore
quando dice il buddhismo "naturalizzato" «una visione del
mondo fondamentalmente [...] deterministica», avendo, secondo
il Canone, il Buddha Sakyamuni più volte rigettato le
dottrine secondo le quali tutto è predeterminato in quanto
fataliste e sminuenti il ruolo, fondamentale nella dottrina
buddhista, della scelta individuale nel determinare il proprio kamma. Forse l'Autore
intende "deterministico" nel senso di "non arbitrario o frutto di
processi metafisici" e piuttosto "influenzato da cause preesistenti
e causa di conseguenze secondo la legge naturale di causa ed
effetto". Trovo poi criticabile l'elencare il karma tra le "stregonerie" del
buddhismo asiatico tradizionale, essendo il kamma definito nel canone pāli
come l'azione derivante dalla volizione (cetanā), influenzata da cause e seguita dalle
conseguenze secondo la dottrina della concatenazione di causa ed
effetto (paṭicca-samuppāda)
(vedasi in proposito Anguttara Nikāya VI, 63). Ma forse il
"buddhismo naturalizzato" consiste proprio nel ritorno all'accezione
canonica di kamma e
all'abbandono delle concezioni in voga nelle tradizionali popolari
buddhiste asiatiche.
A voi la recensione.
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Il buddhismo: la religione più accurata del mondo?
Di Joshua Rothman, The Boston Globe, 28 agosto 2011
Boston, MA (USA) -- Il buddhismo è in voga in occidente, e lo
è stato per tanto tempo. In parte è
perché il buddhismo appare "spirituale" senza essere
troppo religioso; c'è anche il fatto che le pratiche
buddhiste, specialmente la meditazione, sono dai più
associate alla felicità, alla soddisfazione e al benessere.
Per gli americani distratti, insoddisfatti e troppo occupati dal
lavoro, essere buddhista è una scelta di vita sensata e
pratica. Fai ginnastica, mangia bene, dormi a sufficienza e
medita.
In "Nel cervello del Bodhisattva: il buddhismo naturalizzato" Owen
Flanagan, un distinto filosofo alla [Università] Duke,
sostiene che questo approccio pratico al buddhismo perde di vista la
cosa più importante. Il buddhismo è rilevante
non solo per ragioni pratiche, ma anche per ragioni filosofiche.
Tolte le "stregonerie" della reincarnazione, del karma e dei
"bodhisattva che volano su foglie di loto" si trova un resoconto
rigoroso, chiaro e limpido dell'universo e della nostra collocazione
in esso -- un resoconto, infatti, capace di soddisfare persino il
più ardente materialista moderno. Il buddhismo, in
altre parole, è rilevante perché ha proprio ragione.
Flanagan non parla del buddhismo com'è in realtà
praticato nel mondo, in una sbalordente gamma di tradizioni
diverse. Il suo oggetto è "il buddhismo naturalizzato"
-- vale a dire il buddhismo ripulito in un insieme di concetti
fondamentali filosofici (e, punto cruciale, non sovrannaturali).
Naturalizzato il buddhismo si rimane con una visione del mondo
fondamentalmente materialista e deterministica. Esistesse il
"credo buddhista", scrive Flanagan, sarebbe qualcosa come: "Credo
che tutto è impermanente, che tutto (inclusa la mia
condizione mentale) è soggetto al principio di causa ed
effetto e che dato che io sono uno degli oggetti-qui-esistenti io
sono impermanente e soggetto alle leggi di causa ed effetto."
Fisici, biologi, filosofi e neuroscienziati sarebbero d'accordo;
oggi è un fatto scientifico che gli esseri umani vivono in un
mondo materiale e determinato e che sono loro stessi determinati e
materiali.
Nella tradizione occidentale il materialismo e il determinismo sono
stati causa di disperazione. Il buddhismo è utile,
sostiene Flanagan, proprio perché non ne è intimidito:
infatti è a partire da questa concezione del mondo che
muove i suoi passi, procedendo poi a porsi domande morali su come
dovremmo comportarci in un universo impermanente, materialista e
determinato. Infatti nel mondo buddhista il materialismo e il
determinismo possono essere moralmente istruttivi.
Si deve lavorare piuttosto duro nella meditazione e nello studio per
accettare la realtà materialista. Ma, una volta
accettata, si capisce di non essere così importanti o
permanenti come si pensa di essere -- ossia che, in un senso
fondamentale, il proprio se o anima non esiste veramente al di la di
una connotazione temporale. (Questa è una conclusione,
guarda caso, condivisa da filosofi quali John Locke e Derek
Parfit.) Questo, a sua volta, fa scaturire un'idea morale:
quella che la soddisfazione dei propri bisogni e voluttà
personali non dovrebbe essere la propria massima
priorità. Ci si dovrebbe invece dedicare a progetti dai
quali tutti traggano beneficio e operare per diventare più
cortesi e generosi verso i propri simili umani.
Il vero valore del buddhismo, pensa Flanagan, è che trova un
senso morale nel nostro mondo materiale. Questo, sostiene,
rende la nostra ossessione occidentale con i buddhisti "felici"
piuttosto misera in confronto. L'obiettivo del buddhismo non
è la felicità, ma è vedere il mondo per quello
che è trovando il modo di reagire alle situazioni in un modo
responsabile.
I nostri sistemi morali occidentali, sconvolti dalla Rivoluzione
Scientifica, stanno ancora cercando il modo di farlo mentre, per i
buddhisti, non c'è mai stato nulla da sconvolgere.
Infatti, sostiene Flanagan, la tradizione buddhista ha all'attivo
2.500 anni di "esperienza vissuta" nel materialismo.
Filosoficamente, spiritualmente e praticamente ha aperto la via ad
un materialismo moralmente sensato: nei confronti di uno stile di
vita in cui il riconoscere la verità -- "che io sono una
persona metafisicamente priva di sé" -- può rivelare
"che io ho motivo di essere moralmente meno egoico."
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