Traduzione di Alessandro Selli delle pagg. 7-13 del testo: “Ancient Buddhist Scrolls from Gandhāra - The British Library kharoṣṭhī Fragments”, di Richard Salomon, University of Washington Press, 1999, 273 pagine, ISBN: 029597768X.

Capitolo 1 - L'ambiente: il Gandhāra e il buddhismo del Gandhāra

1.2 Il buddhismo nel Gandhāra
1.3 Le fonti testuali e lo studio accademico moderno del buddhismo
1.4 Le scoperte precedenti di manoscritti del primo buddhismo e il loro significato nello studio del buddhismo
1.5 I frammenti in kharoṣṭhī della Biblioteca Britannica e il buddhismo del Gandhāra: un anticipo del significato potenziale della nuova scoperta
Note

1.2 Il buddhismo nel Gandhāra

Si assume in genere (per quanto ciò sia ancora da confermare storicamente e archeologicamente) che il buddhismo sia stato introdotto per la prima volta nel Gandhāra intorno alla metà del terzo secolo AC sotto l'auspicio di Aśoka, il grande imperatore della dinastia Maurya e patrono del buddhismo, il cui controllo di questa regione è attestato dalla serie dei suoi editti scolpiti in scrittura kharoṣṭhī a Shāhbāzgaṛhī e Mānsehrā. Una seconda testimonianza di una prima presenza del buddhismo nell'estremo nordovest del subcontinente indiano è il famoso testo: “Le domande di Milinda”, che sostiene contenere un dialogo filosofico tra il re Menandro, il più grande dei sovrani indo-greci del secondo secolo AC, e un monaco buddhista di nome Nāgasena. Sebbene il presunto originale in gandhāri di questo testo sia andato perduto, sopravvive in diverse versioni pali e cinesi e rimane la prima esplicita testimonianza dell'incontro del buddhismo con le culture cosmopolite del Gandhāra – un incontro che, nei secoli successivi, è stato illustrato vivacemente e abbondantemente nella cultura del Gandhāra con la sua combinazione unica di temi e stili indiani e greco-romani.

[...]

Ci sono prove ineludibili che i monaci del Gandhāra in particolare siano stati gli autori della prima espansione del buddhismo oltre i confini dell'India. Ad esempio, due iscrizioni in scrittura kharoṣṭhī e in lingua gandhāri sono stati trovati presso le città di Lo-yang e di Chang-an, che furono tra i principali dei primi centri buddhisti in Cina3. Inoltre, la letteratura dell'abhidharma dell'autorevole scuola dei Sarvāstivādin, che sopravvive in gran parte solamente nelle traduzioni cinesi, contiene frequenti richiami ad una tradizione del Gandhāra ed esiste un consenso generale tra gli studiosi moderni che alcuni importanti trattati sull'abhidharma che ci sono giunti tradotti in cinese, come l'abhidharma-hṛdaya, furono originariamente scritti nel Gandhāra4. Infine, una loro analisi linguistica indica che almeno alcuni dei primi testi buddhisti scritti in cinese fossero stati tradotti da originali, o per lo meno derivati da prototipi, in lingua gandhāri. E così è stata proprio la forma (o le forme) di buddhismo del Gandhāra che s'incontrò per prima nelle altre regioni dell'Asia, per cui ancora una volta la collocazione strategica del Gandhāra gli ha permesso di ricoprire un ruolo centrale nella storia culturale dell'Asia, fungendo da trampolino geografico dal quale il buddhismo spiccò il grande balzo che gli permise di trasformarsi da una religione indiana ad una religione panasiatica e, alla fine, mondiale.

Ma la nostra conoscenza del buddhismo del Gandhāra è stata fino ad ora distorta in un modo curioso. I suoi resti archeologici sono molto abbondanti e hanno permesso agli studiosi di ricostruire, per lo meno per grosse linee, le espressioni storiche, artistiche e architetturali del buddhismo del Gandhāra. Ad esempio, è stato principalmente grazie alle centinaia di iscrizioni di dedica in kharoṣṭhī, spesso provviste di data e alcune volte riportanti i nomi di re e ufficiali di governo, che è stato possibile ricostruire la struttura base della storia politica e culturale di questo periodo. Ma le scritture, e quindi le dottrine, del buddhismo del Gandhāra sono rimaste finora in gran parte oscure. Sebbene le già citate traduzioni cinesi dei testi dell'abhidharma ci forniscano una qualche idea di alcune tesi o punti dottrinali importanti del buddhismo del Gandhāra (e così intanto dimostrano che il Gandhāra era un centro vitale dell'attività intellettuale buddhista), non abbiamo praticamente nessuna fonte diretta di tutto ciò. Finora è stato disponibile solamente un esemplare di testo originale del buddhismo del Gandhāra, ossia il famoso rotolo “Dharmapada gandhāri” (Brough 1962), che però è stato trovato non nel Gandhāra, ma vicino a Khotan, nella regione cinese dello Xinjiang. A causa dell'assenza di qualsiasi altro documento con cui poterlo confrontare, è stato difficile finora stabilire il valore di questo unico manoscritto in relazione alle caratteristiche testuali e dottrinali del buddhismo del Gandhāra. In particolare è stato oggetto di controversie se il rotolo di Khotan (KdhP) debba essere preso o no come un indizio dell'esistenza di un ipotetico “canone gandhāri” quale prodotto di un progetto organizzato e concertato per esprimere i testi buddhisti in una lingua locale5. Questo concetto di un canone gandhāri era plausibile a priori alla luce dell'atteggiamento buddhista tradizionalmente liberale nei confronti delle traduzioni, che incoraggiò l'uso di vernacoli locali nella diffusione del dharma, e le nuove scoperte oggetto di questo libro provano che i testi buddhisti erano veramente tradotti, e a volte scritti originalmente, in gandhāri. E così sta adesso diventando chiaro che gli abbondanti resti del buddhismo del Gandhāra avevano un corrispondente corpo di testi scritti nella lingua locale che era probabilmente di simile entità, del quale adesso abbiamo un esemplare affascinante, per quanto solamente una minuscola frazione di quello che doveva essere stato il tutto.
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1.3 Le fonti testuali e lo studio accademico moderno del buddhismo

Per circa due secoli gli studiosi si sono sforzati di comprendere la storia del buddhismo soprattutto da una parte studiandone i testi e dall'altra osservandone le pratiche moderne in diverse regioni dell'Asia. Per gli studiosi interessati principalmente alle origini e alla storia del primo buddhismo il valore del secondo metodo è fortemente limitato, non solo per l'ovvia difficoltà a interpretare un passato di quasi due millenni e mezzo basandosi sulla pratica moderna, ma anche perché il buddhismo è morto nella sua terra natale molti secoli fa. E così hanno tentato di rintracciare le origini del buddhismo principalmente nelle sue testimonianze testuali, ossia, in ultima analisi, nei manoscritti. Le prime ricerche moderne si sono concentrate sulla tradizione testuale in pali della scuola theravāda, in gran parte perché il buddhismo theravāda è sopravvissuto fino ai tempi moderni nello Sri Lanka, nella Birmania, in Thailandia, in Cambogia e in altre regioni dell'Asia sudorientale, così che i testi del canone pali, il Tipiţaka, vi erano prontamente disponibili. Questo fatto ha fornito ad alcuni dei primi studiosi l'impressione, da allora dimostratasi illusoria, che il Tipiţaka pali contenesse e rappresentasse il solo corpo testuale originario del buddhismo, conservato più o meno integro nella sua forma e lingua originali.

Gradualmente, tuttavia, altre metodologie e scoperte e il conseguente allargamento dell'ottica degli studiosi accademici del buddhismo hanno dimostrato che non è per niente detto che questa sia la sola realtà e che il quadro complessivo della storia del buddhismo indiano era molto più complessa e varia di quanto sembrasse all'inizio. In particolare le scoperte, prima in Nepal nell'ultima parte del diciannovesimo secolo quindi in Asia centrale (soprattutto a Xinjiang) tra la fine del diciannovesimo e i primi del ventesimo secolo, di una grande quantità di manoscritti buddhisti in sanscrito o in sanscrito ibrido che rappresentano il corpo testuale di gruppi settari e dottrinali precedentemente poco conosciuti, hanno mostrato che la tradizione pali non è proprio la sola autentica rappresentante del buddhismo indiano.

Nel frattempo una sempre più ampia conoscenza dei vasti canoni del buddhismo dell'Asia orientale in lingua cinese, tibetana e in altre lingue dell'Asia orientale e centrale ha avuto un effetto analogo. In particolare le traduzioni cinesi dei testi buddhisti indiani sono stati scoperti contenere intatte grandi porzioni di tutte e tre le ripartizioni principali dei canoni (il sūtra, il vinaya e l'abhidharma) delle varie primitive tradizioni indiane quali la Sarvāstivādin, la Dharmaguptaka e la Mahāsāṅghika, tra le altre. Nonostante la maggior parte di questi canoni settari non ci siano giunti in nessuna delle loro lingue originali, le loro versioni cinesi hanno in linea di principio un pari diritto a dirsi autorevoli e originali quanto il canone pali dei Theravādin e per questa ragione è man mano diventato chiaro come il primato accordato a questa tradizione dai primi studiosi moderni fosse esagerata. Era solamente perché il buddhismo Theravāda era sopravvissuto in una tradizione più o meno uniforme e continua nello Sri Lanka e nell'Asia sudorientale che incombeva così corpulento in confronto alle altre tradizioni regionali, settarie e linguistiche del buddhismo indiano, in particolar modo in confronto alle tradizioni perdute dell'India settentrionale e dei suoi eredi dell'Asia centrale e orientale. In poche parole gli studiosi hanno poco a poco cominciato a vedere il buddhismo indiano come un complesso di tradizioni locali, nessuna delle quali poteva in sé e per sé essere considerata la forma “originale” o “vera” della religione.
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1.4. Le scoperte precedenti di manoscritti del primo buddhismo e il loro significato nello studio del buddhismo

I manoscritti originali sono ovviamente i migliori, e in molti casi i soli, testimoni di queste varie tradizioni locali, almeno per quanto riguarda il loro contenuto testuale e dottrinale (per quanto bisogna ammettere che questo non rappresenti completamente la realtà storica della tradizione). Nella maggior parte dei casi, tuttavia, questi manoscritti non sono tanto antichi, soprattuto perché i manoscritti indiani, che sono normalmente scritti su foglie di palma o, nell'estremo nord, su corteccia di betulla, di solito non sopravvivono a lungo nel clima monsonico caldo-umido che prevale nel subcontinente. E così le tradizioni legate ai testi scritti sopravvivono solamente laddove i manoscritti sono copiati e ricopiati con frequenza e regolarità e sono riposti e conservati con cura. Questo era il caso, ad esempio, della tradizione Theravāda dello Sri Lanka e dell'Asia sudorientale; in queste regioni i manoscritti pali sopravvivono in grande quantità, anche se relativamente pochi sono più antichi di qualche secolo. Ma nella terra madre India, dove il buddhismo si è estinto intorno al tredicesimo secolo D.C., la tradizione di conservare e di copiare i manoscritti si è spenta con esso e vi sopravvive una quantità di manoscritti relativamente piccola. Nel Nepal, dove invece il buddhismo è rimasto vivo, sopravvive una grande quantità di manoscritti buddhisti, ma anche qui la maggior parte sono relativamente recenti e si conoscono solo pochissimi esemplari antichi di più di mille anni.

Ma nel bacino del Tarim nello Xinjiang moderno, che, come adesso sappiamo, fu un importante centro buddhista del primo millennio D.C., le condizioni prevalenti erano molto diverse essendo il clima del deserto molto idoneo alla conservazione dei manoscritti vergati su materiale organico come le foglie di palma, la corteccia di betulla o la carta. E così le esplorazioni intraprese dagli studiosi europei, giapponesi e americani in questa regione intorno all'inizio del secolo corrente [scorso, NdT] hanno prodotto una quantità massiccia di manoscritti quali non ve n'erano altrettanto antichi prima, provenienti da una fase di rilievo del buddhismo prima sconosciuta. Come accennato nella sezione precedente, questa scoperta di migliaia di frammenti di manoscritti in sanscrito e in altre lingue locali, la maggior parte dei quali datati intorno al settimo secolo o più tardi ma in pochissimi casi fino al secondo o terzo secolo, hanno avuto una forte eco sulle considerazioni degli studiosi del buddhismo, scuotendo le vecchie attitudini palicentriche e obbligando ad una loro graduale revisione che è in corso ancora oggi.

Ora, è vero che i manoscritti più antichi non siano sempre o automaticamente di maggior valore, autentichi o rivelatori di quelli più tardi. Ciononostante i manoscritti più antichi sono sempre potenzialmente, in pratica solitamente, di valore straordinario non solo perché tendono a raccogliere le versioni più accurate dei testi, meno corrotte dai cambiamenti che hanno inevitabilmente subìto nel lungo termine nel corso della loro trasmissione, ma anche e a maggior ragione perché forniscono una testimonianza diretta dei testi che erano in uso nei tempi remoti. Specialmente quando si ha a che fare con manoscritti molto antichi come quelli che sono descritti in questo libro, potremmo trovarvi non solo versioni di testi già conosciuti ma significativamente diverse da quelle che conosciamo da tradizioni più tarde e moderne, ma anche testi o addirittura interi generi e classi di letteratura che erano precedentemente completamente sconosciuti.

Questo è particolarmente importante perché nel buddhismo, come nella maggior parte delle tradizioni religiose istituzionalizzate, i canoni delle scritture ortodosse sono stati alla fine determinati in modo da definire effettivamente il corpo testuale dei vari gruppi locali e linguistici, com'è successo ad esempio nelle tradizioni pali e tibetana. Questi canoni standardizzati hanno inevitabilmente avuto l'effetto di mettere in ombra o addirittura di sopprimere completamente certi testi o persino interi filoni letterari. Rappresentano quella che è in effetti una versione censurata della storia testuale e dottrinale della loro tradizione, in cui le vecchie divergenze, controversie ed eresie sono state troncate di netto. Per questa ragione nella maggioranza dei casi è solamente tramite la scoperta e l'interpretazione dei vecchi manoscritti che gli storici possono gettare uno sguardo al di là della facciata ufficiale che una tradizione religiosa si è data, scoprendo magari la storia complessa che inevitabilmente vi è dietro. Un esempio di rilievo, dal punto di vista del mondo occidentale, è il quadro drasticamente alterato della prima cristianità che ci ha fornito la scoperta dei rotoli del Mar Morto e dei manoscritti di Nag Hammadi.
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1.5 I frammenti in kharoṣṭhī della Biblioteca Britannica e il buddhismo del Gandhāra: un anticipo del significato potenziale della nuova scoperta

Per quanto i frammenti della Biblioteca Britannica siano paragonabili ai rotoli del Mar Morto e ai manoscritti di Nag Hammadi in quanto ci forniscono degli esemplari autentici dei documenti letterari di una fase della tradizione buddhista molto più antica di quanto era precedentemente disponibile, è improbabile che contengano novità tanto radicalmente diverse da quanto ci è noto quanto le loro controparti cristiane. La prima analisi dei nuovi frammenti che è stata eseguita finora, i cui risultati sono riassunti in questo libro, non ha rivelato nulla di sorprendentemente discorde con la prima dottrina buddhista che ci era precedentemente nota, né ci sono ragioni di attendersi che un'ulteriore analisi riveli nulla che lo sia. L'importanza della nuova collezione risiede su un altro piano forse meno spettacolare, ma non per questo meno importante. Questi frammenti ci forniscono una visione diretta e senza precedenti dei contenuti di quella che sembra essere stata una raccolta monastica oppure una biblioteca della scuola dharmaguptaka del o intorno alla prima metà del primo secolo D.C., e sono di gran lunga i più antichi frammenti di una raccolta di testi buddhisti mai trovati. È probabile, per quanto non del tutto certo, che i frammenti della Biblioteca Britannica siano i più antichi manoscritti buddhisti conosciuti6, in ogni caso sono decisamente la più antica raccolta coerente di manoscritti conosciuta.

Una caratteristica importante dei nuovi manoscritti è l'inclusione in alcuni di essi di folclore e tradizioni locali del Gandhāra, il che lascia pensare che il buddhismo antico del Gandhāra e, per induzione, forse anche degli altri centri regionali del buddhismo indiano, avesse un carattere più distinto e locale di quanto non si credesse prima7. In particolare, la comparsa in alcuni dei nuovi testi di almeno due membri delle case regnanti contemporanee indo-scite dell'inizio del primo secolo D.C., che erano noti in precedenza da monete e iscrizioni, sono una scoperta ragguardevole e inattesa che ci permette un'ulteriore apprezzamento del valore storico di questi testi8. Questi riscontri ci permettono di collocare la tradizione testuale dei nuovi manoscritti in un certo contesto storico e quindi di svelarci la precedentemente oscura fase in cui il buddhismo del Gandhāra stava assumendo la propria identità nel periodo indo-scita. Quello che oggi sappiamo del buddhismo del Gandhāra risente fortemente dell'effetto dominante dell'impero Kuṣāṇa (dalla metà del primo al terzo secolo D.C. circa) che, cominciamo ora a sospettare, ha messo in ombra e celato il periodo precedente indo-scita della tarda tradizione buddhista dell'India settentrionale, mentre il periodo Kuṣāṇa, e specialmente il regno di Kaniṣka, è stato rappresentato come una sorta di età dell'oro. I nuovi manoscritti portano adesso alla luce una fase precedente, dimenticata ma cruciale, in cui le dinastie indo-scite esercitarono un'azione di promozione del buddhismo e delle sue istituzioni intorno all'inizio dell'era cristiana confrontabile con le più note attività dei Kuṣāṇa dei due secoli successivi.

Questo panorama storico potrebbe essere correlato in maniera significativa con un altro argomento d'interesse che riguarda i nuovi manoscritti, ossia la loro probabile relazione con la scuola Dharmaguptaka. I Dharmaguptaka sono stati finora una presenza umbratile nel contesto del buddhismo indiano, nonostante si sappia abbiano ricoperto un ruolo chiave nella prima fase della propagazione del buddhismo indiano nell'Asia centrale e in Cina. Questa collezione ci si aspetta quindi che fornisca l'anello mancante, o per lo meno uno degli anelli mancanti, tra il buddhismo indiano e le sue prime espressioni nell'Asia centrale e orientale. Inoltre questi nuovi reperti, insieme ad altre recenti scoperte epigrafiche, indicano che il successo iniziale e il successivo declino dei Dharmaguptaka potrebbe essere stato il risultato di una graduale migrazione del sostegno ricevuto quando i loro patroni indo-sciti furono sostituiti dai Kuṣāṇa, che erano evidentemente maggiormente propensi a favorire i più noti Sarvāstivādin9.

Un'altra caratteristica importante e sorprendente dei nuovi manoscritti è la quantità di materiale non precedentemente noto che vi si è trovato. In generale la maggior parte, per quanto non la totalità, del contenuto bibliografico che si è trovato nelle diverse tradizioni manoscritte posteriori che sono state brevemente descritte in precedenza è più o meno comune a, o per lo meno ben nota a partire da, una o più delle tradizioni canoniche esistenti. Ad esempio, molti dei manoscritti in sanscrito dell'Asia centrale contengono testi che sono essenzialmente delle varianti di quelli già noti in pali e/o in altre lingue. Fino ad un certo punto questo è vero anche per i nuovi manoscritti del Gandhāra ma, piuttosto inaspettatamente, una sostanziale maggioranza delle circa due dozzine di testi distinti che vi compaiono non sono stati ancora identificati con testi noti in altre lingue e tradizioni. Dovesse questa caratteristica confermarsi con il progredire di ulteriori studi più dettagliati dei singoli testi, verrebbe a rafforzarsi l'idea che il corpo bibliografico del monastero del Gandhāra dal quale provengono e, presumibilmente, per induzione, in generale del primo buddhismo del Gandhāra possa essere considerato più diverso da quelli oggi esistenti di quanto ci si aspettava. In altre parole, per quanto i temi dottrinali trattati nei nuovi testi non siano radicalmente distanti da quelli che ci sono familiari dalle altre tradizioni, le modalità e le forme della loro trattazione e studio potrebbero essere veramente diverse da quelle che oggi conosciamo.

Dovesse confermarsi non un'eccezione, questo avrebbe ampie e forse profonde implicazioni sulle nostre cognizioni di “canone buddhista”. Ad esempio, potremmo avere a che fare con uno stadio di sviluppo pre- o proto-canonico, cioè con uno stadio in cui il contenuto, l'organizzazione e l'ambito di un canone nel senso stretto del termine non erano ancora pienamente definiti. È altresì importante notare che questi manoscritti provengono da un periodo storico in cui, se si accettano come veritieri i resoconti tradizionali, la scrittura era stata da poco adottata come un sostituto, o piuttosto come un supplemento, delle vecchie tecniche di memorizzazione e recitazione orale dei testi buddhisti. Fosse questo vero, potremmo avere a che fare con testi della prima fase di un lungo periodo di transizione graduale da una tradizione principalmente orale a quella che sarebbe alla fine diventata eminentemente scritta, e l'esame di questi testi è probabile che porti a chiarire i problemi complessi sulle relazioni reciproche di queste modalità di trasmissione dei testi e delle vie di formazione canonica che ne nacquero10.

Uno dei principali gruppi di testi che sembrano rivelare strutture e generi diversi da quelli delle raccolte che ci sono più familiari sono i commentari sui singoli gruppi di versi, che occupano un posto di primo piano per la frequenza con cui appaiono nei frammenti della Biblioteca Britannica11. Per quanto i singoli versi spiegati in questi commentari siano nella maggioranza dei casi traduzioni di testi noti in altre tradizioni, la natura, il principio secondo cui sono organizzati e la funzione di questi testi come un tutt'uno rimane in gran parte oscura. Si presume documentino modalità locali d'istruzione e di predicazione degli insegnamenti basilari buddhisti, cosa che dovrebbe fornirci una controparte interessante ai ben noti commentari pali i cui archetipi, ormai persi, erano detti composti nella lingua vernacolare locale cingalese. Potremmo quindi avere in questi frammenti i più antichi esemplari originali della tradizione dei commentari vernacolari.

Tali testi, come pure altri, potrebbero anche fornirci una visione senza precedenti dei metodi di predicazione e di istruzione che erano impiegati nei monasteri del Gandhāra e dei testi che erano preferiti per questi scopi. Ad esempio, un gruppo particolare di testi della nuova collezione colpisce per la sua similarità ad una lista di testi consigliati per lo studio da parte dei novizi in un testo del vinaya che ci è giunto tradotto in cinese12. Alla luce di tali elementi sembrerebbe che i testi della collezione della Biblioteca Britannica forniscano una selezione rappresentativa di opere di diversi tipi e generi che erano studiati nel monastero dove erano conservati, insieme a testi di base, commentari e opere esplicative e trattati tecnici. Quello che abbiamo, in altre parole, non è un numero di frammenti di un canone completo e sistematico del genere che si trova spesso nelle tradizioni più tarde, sviluppate e sistematiche, quanto piuttosto campioni presi a caso di testi che erano regolarmente usati per lo studio e la recitazione.

Tra i testi più tecnici della nuova collezione ci sono molti frammenti scritti sull'abhidharma o a questo correlati, probabilmente di grande interesse per lo studio dello sviluppo della dottrina buddhista. Come si è già dichiarato prima si sa da tradizioni successive, la maggior parte delle quali ci sono giunte in lingua cinese, che il Gandhāra era uno dei primi e più importanti centri per lo studio dell'abhidharma. Adesso per la prima volta abbiamo campioni originali dei primi testi dell'abhidharma del Gandhāra, che probabilmente rappresentano un periodo cruciale del suo sviluppo e che quindi hanno il potenziale di cambiare radicalmente e di migliorare la nostra conoscenza della storia del pensiero scolastico buddhista.

Cospicuamente assente nel nuovo materiale è un qualsiasi riferimento significativo a, oppure indizi di, concetti e ideali Mahāyāna. Le origini – storiche, geografiche e dottrinali - del Mahāyāna sono state per lungo tempo oggetto di un'attenzione intensa e di un'accesa controversia negli studi buddhisti, ed è ritenuto da molti che la regione del Gandhāra abbia ricoperto un ruolo cruciale nel suo sviluppo. Ma si direbbe che se questi documenti debbano contribuire un qualsiasi apporto a riguardo, questo debba essere negativo o al più indiretto13.

In ultimo, su una scala più ampia, la scoperta senza precedenti di un corpo significativo di testi buddhisti in gandhāri potrebbe alla fine fornire un nuovo standard per valutare e confrontare le raccolte precedentemente note di testi del primo buddhismo indiano in pali e in sanscrito, come pure in cinese e in altre traduzioni. Come la scoperta e l'analisi dei primi manoscritti in sanscrito ha contribuito a correggere la precedente visione palicentrica del buddhismo, ci si può attendere che i nuovi testi gandhārici possano portare a spostare il baricentro fornendo un nuovo paragone in base al quale confrontare le tradizioni precedentemente note. In breve, per quanto sia impossibile predire a questo punto tutte le ramificazioni a cui porterà alla lunga questa scoperta, si può probabilmente sostenere con fiducia che aprirà un capitolo interamente nuovo sugli studi del buddhismo.

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Note

3Vedasi Salomon 1998: 160 per i dettagli e le fonti.

4Vedasi Willemen 1975: xiv, xvi, xxii-xxiii. Per le relazioni tra vari testi di abhidharma del primo sarvāstivādin e la regione del Gandhāra, vedasi Nishimura 1982; Nishi 1934; Yamada 1957 e Kawamura 1974: 25 segg, spec. 37. (fonti fornite da Collet cox.)

5Vedasi il capitolo 3 e la sezione 8.1.1 per un'ulteriore discussione del problema del canone gandhāri.

6Il Dharmapada del Gandhāra proveniente dal Khotan potrebbe essere altrettanto antico, o di poco successivo; i più antichi frammenti dei manoscritti dell'Asia centrale sono probabilmente più tardi di un secolo o ancora di più. Per i dettagli sulla datazione assoluta e relativa dei nuovi frammenti si veda il capitolo 7.

7Questo argomento e altri correlati sono trattati nelle sezioni 2.2.4 e 8.1.4.1.

8Questi riscontri sono trattati e valutati nelle sezioni 7.1 e 8.3.3.

9La relazione con i Dharmaguptaka e le sue implicazioni sono discusse in dettaglio nella sezione 8.2.

10Si veda la sezione 8.1.4.2. per un'ulteriore trattazione.

11Per una descrizione più approfondita e alcuni esempi di questa classe di testi si veda la sezione 2.2.2.

12Si veda la sezione 8.1.2.1.

13Per un'ulteriore trattazione dell'argomento si veda la sezione 8.3.1.


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Ultima modifica: 19 agosto 2007.

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