Nel trafiletto di quarta di copertina di questo libro Charles Prebish dice che è "uno degli scritti sul buddhismo indiano più creativi e notevoli che abbia letto nell'ultimo quarto di secolo". E sono completamente d'accordo. "A Bull of a Man" [Un toro d'uomo] di John Powers, Harvard University Press, 2009, è uno studio approfondito della mascolinità, della sessualità maschile e del corpo maschile nel buddhismo indiano, dal Tipitaka Pali, dai testi Hinayana in sanscrito, dai testi Mahayana e nella letteratura Vajrayana. È una lettura affascinante e a volte piuttosto sconcertante.
Nel secondo capitolo Powers prende in considerazione il corpo del
Buddha com'è descritto nel Tipitaka. Fa sua la tesi che la
bellezza corporea del Buddha, che compare così spesso nel Tipitaka,
debba essere il prodotto della dottrina del kamma, l'idea che
l'attrazione fisica sia il risultato del bene compiuto nelle vite
precedenti. Mentre questa tesi è senz'altro plausibile, non vedo
ragione di dubitare che il Buddha fosse veramente di bell'aspetto
(alcune persone lo sono) e che il Tipitaka riferisca di un'autentico
ricordo dell'aspetto del Buddha. Powers quindi passa ad esaminare
le mahapurisalakkhana, i trentadue segni distintivi di un
grande uomo, probabilmente l'idea dottrinale più strana del
Tipitaka. Se il Buddha avesse veramente avuto alcune di queste
caratteristiche si sarebbe tentati di pensare che le levatrici
l'avrebbero soffocato appena nato. Ma la realtà è che gli antichi
indiani consideravano tali caratteristiche non solo di buon auspicio,
ma anche affascinanti e belle. Nella letteratura buddhista più
tarda, come nella Paramitasamasa, non ci si stanca mai di elogiare la
lingua del Buddha, che sarebbe stata tanto lunga da permettergli di
leccarsi la nuca, e le sue dita palmate. È anche stata dedicata
un'attenzione particolare al suo pene, che poteva ritrarre nel suo
corpo come fanno gli elefanti o i cavalli. Nel suo Abhidharmakosa Vasubhandu contraddice Vaibhasika
quando questi sostiene che il pene del Buddha fosse brutto, asserendo
che invece era bello a vedersi. È abbastanza da far arrossire!
L'origine del mahapurisalakkhana è sempre sfuggita agli studiosi, però
è solitamente detta essere un concetto brahmanico incorporato nel
buddhismo nei suoi primi tempi. Il problema con questa teoria è
che di quest'idea non c'è traccia in nessun testo pre- o
postbuddhista. Powers mette a frutto le sue conoscenze molto
consistenti dei testi medici indiani nell'esame dei mahapurisalakkhana e, nonostante non arrivi a nessuna
conclusione definitiva, si direbbe che i trentadue segni possano aver
avuto origine nelle antiche idee mediche.
Powers sostiene che i primi buddhisti si preoccupassero che il Buddha non fosse pensato essere impotente o inadeguato sotto qualsiasi altro punto di vista, anche quello sessuale, e che per questa ragione ne esaltassero la mascolinità. Questa teoria sembra plausibile e certamente spiegherebbe gli epitaffi notevolmente macho che sono attribuiti al Buddha e ad altri maschi illuminati nel Tipitaka: un toro d'uomo, il capo-carovana, lo stallone, l'eroe, ecc. Anche la tradizione più tarda sembrerebbe confermare la teoria di Powers. Racconta di una leggenda popolare del Laos a proposito della virilità del Buddha. Secondo questa leggenda alcuni discepoli malvagi del Buddha sostenevano che il celibato fosse innaturale e che il Buddha lo praticasse solo per nascondere la propria impotenza. Quando alcuni altri monaci sentirono questi discorsi e pensarono che potesse esserci del vero il Buddha gli chiese: "Dubitate veramente della mia virilità?" Il loro silenzio rispose affermativamente. Il Buddha allora andò in un luogo appartato e tornò dopo un po' di tempo (la storia non dice esattamente quanto tempo dopo) con le mani a coppa piene del suo proprio seme. Lo mostrò ai monaci che dubitavano dicendo: "Ecco la prova della mia mascolinità" e quindi andò al [fiume] Mekong a lavarsi le mani. E così successe che la dea del fiume proprio in quel momento se ne stava nuotando in quel tratto, divenne incinta e più tardi dette alla luce un bambino che, una volta cresciuto, sarebbe diventato l'arahat Upagta, un santo mitologico popolare in certe parti dell'Asia del sudest. Che storia! Dev'essere la leggenda buddhista più bizzarra che ho mai sentito!
Secondo Powers la rappresentazione popolare moderna (tanto quella concettuale quanto quella concreta) del Buddha come un'essere asessuato o persino effeminato è in realtà una concezione piuttosto recente. Di questo non sono sicuro. Credo che sarebbe più vicino al vero dire che anticamente gl'indiani considerassero il Buddha maschile senza alcuna ambiguità, ma che la loro idea della mascolinità fosse/sia piuttosto diversa da quella di altre genti. Powers non deve aver letto il testo di Daud Ali "Courtly Culture and Political Life in Early Medieval India" [La cultura di corte e la vita politica nell'India medievale antica] (2004), uno studio brillante che comprende un esame delle antiche idee indiane sulla bellezza maschile. Il maschio virile indiano era, almeno dal punto di vista del pensiero occidentale, tenero ed effeminato. Come la sua controparte moderna teneva per mano i suoi amici maschi e si abbandonava tra le loro braccia, si dipingeva le ciglia e trascorreva un'enormità di tempo a guardarsi nello specchio. Al Baruni (XI secolo) trovava gli uomini indiani decisamente dandy ed effeminati confronto a quelli ai quali era abituato. "Gli uomini indossano articoli d'abbigliamento femminile; usano il trucco, portano orecchini, braccialetti, anelli con sigilli d'oro sull'anulare come pure sulle dita dei piedi". Questo non vuol dire che gli uomini dell'Asia del sud non siano capaci di fare tutto quello di cui sono capaci gli altri uomini, solo che il loro concetto di mascolinità era/è molto diverso.
Nel diciassettesimo e ultimo capitolo, "Adepti e stregoni", Powers esamina il Vajrayana indiano. È solo una breve rassegna ma il materiale che raccoglie basta per contraddire la tesi buddhista tibetana occidentale che il Tantra abbia poco a che fare con l'indulgenza sessuale e la promiscuità. Anche ammettendo il cosiddetto "linguaggio crepuscolare", certa roba è chiaramente intesa per essere praticata ed è decisamente bizzarra sotto qualsiasi punto di vista. Alcune cose sono così bizzarre ed estreme da non poter essere proprio praticate. Il sesso in sé potrebbe non essere adhammico, ma quella lussuria scatenata, quell'indulgenza sessuale e pratiche magiche sessuali come mezzi per l'illuminazione sono una deviazione radicale dai più antichi insegnamenti buddhisti e Mahayana. Powers fa un'altra considerazione che potrebbe risultare sgradevole al palato degli entusiasti tantrici occidentali, soprattutto al pubblico femminile. "Tutti i tantra che ho studiato assumono una prospettiva maschile, sono stati scritti da uomini per uomini e partono dal presupposto che siano uomini ad eseguire i propri rituali. Le descrizioni dello yoga sessuale sono sempre, da quanto ho potuto constatare, dirette a maschi, e le consorti femminili non sono dette ottenere alcun beneficio spirituale dalla loro partecipazione. I tantra buddhisti indiani non forniscono alcuna istruzione per le donne che vogliono intraprendere questi yoga... La consorte femminile non ottiene alcun beneficio soteriologico in nessuno dei testi che ho studiato e il suo ruolo è quello di fungere da facilitatrice per il progresso del suo compagno. Non ho trovato alcuna prova di una corrispondente spiritualità relativa alle donne in nessuno dei testi tantrici buddhisti indiani".
Inviato da Shravasti Dhammika alle 6:11 pomeridiane
Un'altra recensione dello stesso libro è disponibile, in inglese, su:
http://www.jmmsweb.org/PDF/volume4-number1/jmms-vol4-no1-pp037-040-krondorfer-bull-man-review.pdf
John Powers insegna Studi asiatici all'Università Nazionale Australiana.
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