Traduzione di Alessandro Selli dell'articolo: http://www.commondreams.org/views06/1030-26.htm

Prima traduzione: 01 novembre 2006
Ultima modifica: 03 dicembre 2007


Pubblicato lunedí 30 ottobre 2006 da CommonDreams.org


Le conseguenze della morte dell'empatia

di Robert Jensen


Uno degli effetti più devastanti del privilegio immeritato — sia per quelli di noi che sono al vertice che, per ragioni completamente diverse, per quelli che soffrono in basso — è la morte dell'empatia.

Troppe persone con privilegi di varia natura — basati sulla razza o sul sesso, la condizione economica o la cittadinanza in una nazione potente — arrivano ad ignorare completamente, a permanere nell'inconsapevolezza di quanta gente vive senza i nostri privilegi. Ma anche quando apprendono la cosa, diventa chiaro come l'informazione da sola non sempre porta all'azione politica necessaria. Per arrivare a ciò abbiamo un bisogno disperato di empatia, la capacità di comprendere le esperienze — soprattutto la sofferenza — degli altri.

Troppe volte in questo paese il privilegio blocca ogni potenzialità di empatia, limitando le possibilità della solidarietà. Due esempi di mie esperienze recenti me lo hanno dimostrato.

Una parata di pietismo

In una conferenza sulla Palestina a Washington, DC, un gruppo di attivisti e di docenti déditi s'erano riuniti per prendere il testimone dai falliti accordi di Oslo e giungere creativamente a sviluppare nuove proposte per poter garantire la democrazia e i diritti umani per tutti in Israele e in Palestina. Oltre all'analisi della continua occupazione illegale israeliana dei territori palestinesi, i partecipanti discutevano anche dei passi falsi dei movimenti di resistenza palestinese. Tali riflessioni critiche su sé stessi sono cruciali se si vuole evitare il ripetersi degli errori del passato nello sforzo futuro per ottenere giustizia.

Alla fine di una giornata stancante ma produttiva, uno studente bianco di sesso maschile di un'università vicina si alzò durante la fase aperta al dibattito per fare una domanda. Disse che nel suo corso erano incoraggiati ad essere critici dei principali organi d'informazione e di quanto è comunemente ritenuto vero, e che voleva mettere in pratica un tale pensiero critico anche in quel contesto. Sfidò i relatori a proporre delle soluzioni concrete, dicendo con un'aria compiaciuta che gli sembrava che la conferenza fino a quel punto non fosse stata altro che una parata di pietismo filopalestinese.

Rispondere ad un non così velato razzismo e nazionalismo espresso in un tale tono è sempre rischioso, ma essendo il solo bianco di nascita statunitense tra i relatori pensai di non dover lasciare ad altri il compito di far rilevare allo studente questa sua orribile manifestazione di privilegio.

Il prolema del privilegio, dissi, è che troppo spesso porta ad un'arroganza incredibile, al credersi in diritto di blaterare in pubblico di qualsiasi idea che passi per la testa a prescindere da quanto sia infondata o sconsiderata. Sottolineai al ragazzo che sembrava non aver notato quanto per tutto il giorno ci si fosse dedicati ad un'analisi accurata senza un briciolo di autopietismo. Forse la sua domanda aveva qualcosa a che fare con il vedere il problema dal comodo punto di vista di chi se ne sta al sicuro negli Stati Uniti senza alcuna esperienza diretta della lotta e delle sofferenze del popolo palestinese.

A quel punto Diana Buttu, una avvocato palestino-canadese che vive ora nel West Bank, è intervenuta e ha spiegato com'è la vita nei territori [palestinesi occupati dagli israeliani, NdT]. Cambiata l'impostazione del discorso dall'ambito dell'analisi legalo-politica in cui l'aveva impostato in precedenza, Buttu ha descritto la realtà quotidiana delle negoziazioni ai posti di blocco e delle strade per soli ebrei solo per poter percorrere pochi chilometri per andare al lavoro o per fare visita ad amici e parenti. Ha descritto la povertà opprimente dei territori dove almeno metà della popolazione è al di sotto della soglia ufficiale di povertà. I suoi commenti hanno reso chiaramente il punto che non si stava facendo un'esercizio di autocommiserazione, ma che si stava esprimendo una preoccupazione sentita nel profondo sulle ingiustizie che si stanno perpetrando e sugli effetti reali che hanno su persone reali. Buttu, che ha sottolineato di non aver sofferto tanto quanto altri che vivono nei territori perché viaggia con un passaporto canadese, ha illustrato – piuttosto che predicato – l'empatia, e l'effetto risultante è stato forte. È stata capace di riconoscere nello studente una persona giovane e ignorante e che la circostanza necessitava della correzione di quell'ignoranza, ma con compassione nei suoi confronti.

Il festino sessuale

In una relazione sulla critica femminista della pornografia in un'università avevo descritto alcune delle pratiche sessuali corporalmente mortificanti più diffuse, specialmente quelle del genere conosciute come gonzo, il tipo di pratica sessuale più aspra e palesemente crudele. Un giovanotto tra i presenti aspettò fino a che se ne fossero andati tutti quanti avevano delle domande da chiedere prima di avvicinarsi circospetto dicendomi di voler ribattere ad alcune delle mie dichiarazioni.

Lo studente disse di guardare regolarmente pornografia gonzo e che pensava che io avessi distorto la realtà di tale produzione. Nulla di quello che guardava, disse, era come quello che avevo descritto. "Quelli che a me piacciono sono solo filmetti di gente che si diverte a fare festa", mi ha detto.

Gli ho chiesto di parlarmi ancora di quello che guardava. Più parlava più diventava chiaro che stesse descrivendo esattamente il genere di materiale di cui avevo trattato, e potevo vedere come anche lui se ne stesse pian piano rendendo conto: la mia valutazione della natura aspra e degradante della pornografia era accurata, solamente lui non se n'era mai reso conto. Quando accennò ad un tipo di pratica sessuale che gli piaceva guardare nei porno, chiamata DP, doppia penetrazione, in cui una donna è penetrata ad un tempo sia vaginalmente che analmente, cominciò finalmente ad apparirgli chiaro come in quelle scene il sesso era definito in termini di controllo e di dominazione delle donne.

Ho insistito un po' di più. "Con quali parole gli uomini apostrofano la donna durante questo tipo di rapporto sessuale?" gli ho chiesto. Come iniziò a elencare alcune delle parole – tutte parole intese a denigrare e insultare le donne – gli diventò impossibile evitare la conclusione che la pornografia che più gradiva non era solo sesso, ma era sesso in cui gli uomini agivano in disprezzo delle donne.

A quel punto balbettò: "Ma io non odio le donne, io amo le donne. Io non userei la pornografia in quel modo".

Quella contraddizione non poteva essere risolta sul momento. Allora ho preferito dire allo studente che non stavo sostenendo che odiasse le donne, ma gli stavo semplicemente mostrando come si stesse procurando del piacere sessuale da un genere di pornografia che esprimeva odio per le donne. Perché quella misognia gli era rimasta invisibile? Perché non era stato capace di vedere che cosa stava succedendo sullo schermo e di immaginare come potessero sentirsi le donne per un trattamento così degradante?

La risposta è piuttosto semplice: il privilegio che si accompagna all'essere un uomo in un patriarcato aveva eroso la sua capacità di provare empatia, permettendo al piacere sessuale che provava di sopraffare la sua umanità e rendendogli difficile calarsi nei panni di una donna che sperimenta un trattamento chiaramente crudele e degradante.

Il privilegio e la carenza di empatia

Lo studente della conferenza sulla Palestina vive in un paese dove non ha mai dovuto passare per un posto di blocco o giustificarsi alle autorità soltanto a causa del colore della sua pelle, della sua etnia o della sua nazionalità. Lo studente nella mia relazioe sulla pornografia vive in una società in cui non ha mai dovuto temere d'essere oggetto di un comportamento sessuale degradante e potenzialmente violento a causa del suo genere. Entambi hanno imparato a considerare sé stessi e le loro esperienze come la norma a confronto della quale gli atteggiamenti degli altri devono essere giudicati.

Come posso essere così sicuro di questa asserzione? Perché questa è la maniera in cui sono stato cresciuto quale uomo bianco di cultura europea e cittadinanza statunitense. Nella comodità del mio privilegio ho trascorso gran parte della mia vita chiedendomi perché così tante persone che non mi assomigliavano si lamentavano così tanto. Capivo che c'era ineguaglianza e ingiustizia nel mondo, ma la vita a me sembrava ragionevolmente buona. Dopotutto, il mio duro lavoro sembrava produrre i suoi frutti, il che mi faceva pensare che quelli che non se la cavavano altrettanto bene avrebbero dovuto lavorare un po' di più duro e smettere di fare la lagna.

Ripensandoci mi rendo conto che anche se non provengo dal settore ricco della società, i privilegî di cui ho goduto senza che me li dovessi guadagnare hanno diminuito la mia capacità di provare empatia. Ho avuto disponibile una grande quantità di informazioni, ma sono rimasto emotivamente sottosviluppato. Potevo sapere di certe cose, ma allo stesso tempo non sentivo il peso delle conseguenze di quella conoscenza. Questo vuol dire che potevo evitarmi le conclusioni scomode che sarebbero sorte da un conoscere e da un sentire più profondi – cioè che la disuguaglianza e l'ingiustizia nel mondo mi recavano un certo qual beneficio e che per questo avevo un obbligo maggiore a fare qualcosa in proposito.



Quando in seguito la mia vita si politicizzò, compresi non solo che dovevo imparare di più sul mondo ma anche che dovevo lottare per riconquistare la mia capacità di provare empatia. Per me quel processo iniziò ad un livello intimo con il riconoscere la misoginia e il razzismo nella pornografia con cui ero cresciuto. Da lì crebbe diventando blobale, portandomi a riconoscere la povertà e la violenza che soffrivano i bersagli della potenza statunitense.



Lo sforzo di conoscere e di sentire non finisce mai, perché i miei privilegi continuano. Al modo in cui il privilegio ci impermeabilizza si può facilmente rinunciare e quindi lo si può trascendere. A me serve uno sforzo costante, contrassegnato da dei momenti di autentica capacità di relazionarmi con gli altri che approfondiscono il senso della mia vita, come pure da continue incapacità di provare empatia abbastanza profondamente dal ricordarmi la necessità dell'umiltà. Fa parte dello sforzo senza fine per essere umani in un mondo saturo di tanta sofferenza.


Lezioni organizzative

Ci sono in queste cose due lezioni per l'organizzazione politica di sinistra e/o progressista.

La prima riguarda il modo di proporsi. Tutti sono consapevoli che un resoconto accurato dei fatti accompagnato da argomentazioni logiche inoppugnabili non bastano per conquistare il campo della politica. Ma questo non vuol dire che appelli dalla facile presa emotiva fondati sulla paura o sulla pietà siano la cosa giusta. Ci serve non tanto lo fruttare l'emotività, quanto lo sviluppare collettivamente una facoltà di empatia più profonda. Questo da solo non garantisce una vittoria politica, ma è difficile credere si possano fare progressi senza.

Inoltre, quelli di noi che godono di un privilegio immeritato, mentre pensiamo a come ci proponiamo all'esterno dobbiamo ricordarci di riconnetterci con noi stessi. Il privilegio è perfido e lavora su di noi anche quando pensiamo di essercene sbarazzati. Quando vediamo le più orrende manifestazioni di un tale privilegio negli altri siamo tentati di prenderne le distanze, di etichettarli come la fonte del problema e di considerare noi stessi invece come parte della soluzione. Ma per poter essere capaci di organizzazione dobbiamo essere capaci di praticare l'empatia in tutte le direzioni.

Ripensando a quei due esempi esposti capisco che con il ragazzo alle prese con la sua abitudine alla pornografia ero stato capace di mettermi in relazione. Stava facendo i suoi primi passi fuori del suo isolazionismo e delle sue illusioni sul genere di festino che si consuma nella pornografia, e quando il mio dialogo con lui volgeva al termine gli dissi che capivo quanto possa essere difficile. Finii col dargli un mio tesserino di presentazione e con l'incoraggiarlo a contattarmi avesse avuto bisogno del mio aiuto.

Non ebbi altrettanta fortuna con lo studente della conferenza palestinese. Era giusto essere brusco con lui, non solo per tentare di cambiarlo ma anche per far rilevare agli altri che erano presenti nella stanza quanto era stato fuori luogo il suo commento sulla parata di pietismo. Ma avrei voluto continuare a confrontarmi con lui sull'argomento dopo l'incontro, per dirgli che anche se dissentivo fortemente con le sue tesi, in un certo senso sentivo che eravamo entrambi sulla stessa barca.

Sfortunatamente il ragazzo se ne andò durante l'ultimo incontro e non tornò. Forse aveva un altro appuntamento o forse voleva evitare la possibilità di un altro scontro. Forse provava rifiuto per quello che aveva sentito, o forse se ne era andato per essere solo a ponderarci sopra.

Qualsiasi fosse stata la sua ragione io ci ho continuato a ponderare sopra, ad sentirmi frustrato per le limitazioni degli altri e per i miei stessi fallimenti. E continuo a tirare dritto.

È nel nostro tirare dritto, credo, che possiamo trovare una speranza per il futuro. Non dobbiamo cercare di essere perfetti.   Dobbiamo solamente cercare di metterci in relazione in un mondo che di da molti modi di isolarci, scegliessimo di fare così .

Ogni giorno lottiamo per provare empatia, per sostenerci nella nostra umanità.

Ogni giorno che sappiamo metterci in relazione - con noi stessi e con ciascun altro - è un altro passo in avanti.



Robert Jensen è professore di giornalismo all'Università del Texas ad Austin e membro del consiglio del “Third Coast Activist Resource Center”. È l'autore di: “The Heart of Whiteness: Race, Racism” (Il cuore dell'essere bianchi: la razza e il razzismo) e di “White Privilege and Citizens of the Empire: The Struggle to Claim Our Humanity” (Il privilegio dei bianchi e i cittadini dell'impero: la lotta per reclamare la nostra umanità), editi entrambi da City Lights Books. Può essere contattato all'indirizzo rjensen@uts.cc.utexas.edu.


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