Testo di un messaggio di posta elettronica inviato su una mailing-list di argomento buddhista nel 2001.
Lievemente riedito e convertito in formato HTML il giorno 8 dicembre 2009.

Le Avventure dell'Ananagarika Alessandro
al Monastero Santacittarama in Sabina.

Anno siderale 2544, diario di bordo astronave Santacittarama...

Vi offro alcuni brani raccolti nei primi tre mesi della mia permanenza al Santacittarama Vihara - dicembre 2000-febbraio 2001 -, scritti a mano su diversi fogli e che solo ora ho occasione di copiare e di spedirvi.  Semplici curiosità, alcune banalità e un paio di cose forse un pochino più interessanti.  Probabilmente mi perderò i vostri commenti, pazienza, le esperienze di ogni tipo, quelle belle e quelle di cui avrei fatto a meno, non mi mancano, ne ho tutti i giorni, provocate o solo suggerite dal sangha residente, dai visitatori, dal telefono, dall'aglio ...


19 gennaio 2544

Il raffreddore, secondo giorno.  Migliora.  Lui, non io!  Al terzo giorno miglioro io.  Ajahn Chandapalo oggi alla seduta delle 14:00 starnutisce tre volte e poi si soffia il naso.  Il virus "Influentia Kammica" ha colpito anche lui.  Stessa seduta.  Dopo tre quarti d'ora una persona per proteggere la cui identità chiamerò con lo pseudonimo di Mestizia, decide che lo spernacchiamento della stufa a gas è insopportabile e la spenge.  Seguono dieci minuti di scricchiolii del metallo che si contrae.  Deve ancora finire la seduta che un'altra persona, per proteggere la cui identità chiamerò con lo pseudonimo di Acida, ha un disturbo in gola, si congeda con le prostrazioni di rito e con gran fruscio di vesti e coperte e con rumoroso sbatacchiamento di porta se ne va.  Più tardi, rivolta a Mestizia, dice: "Ma questo [indica la stufa a gas] serve ancora alle quattro?  Perché io sente puzza, disturba".  Mestizia fa un gesto che vuole dire "Ma che ne so?" al che Acida spinge la stufa fuori della sala.  Episodi come questo mi inorgogliscono oltre ogni misura: "Ah, come sono superiore IO, come sono inferiori LORO!  Da così poco che sono al monastero, già mi comporto così meglio di loro che vi hanno vissuto per anni!".  Peccato che è solo questione di tempo prima che ne riceva tante, ma veramente tante, di «batoste» che correggeranno questo orgoglio da strapazzo ...

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Dico a Luca: "Stanotte qualche animale ha grufolato e scagazzato sul mio sentiero per la meditazione!" e lui non trattiene una risata, che ripete dopo mezzo minuto, forse eco della precedente.

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Un giorno penso, per l'ennesima volta, a quale titolo io stia nel monastero.  Ajahn Chandapalo mi dà ufficialmente dell'"aspirante Anagarika", ma non mi suona bene presentarmi alla gente in questo modo: "Salve, sono l'aspirante Anagarika Alessandro".  Ne parlo con Luca, ci riflettiamo sopra per un po' e, dopo aver scartato qualche proposta, giungiamo alla definizione migliore del mio stato: io sono il «non (ancora)» -a- «che ha abbandonato» -a- «lo stato di 'colui che ha casa'» -agarika-, cioè A-anagarika, scritto per bene: Ananagarika.  "Ananagarika Alessandro, humm, sì, va bene".  E così divento l'Ananagarika Alessandro.

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A PROPOSITO DI UN PRETE CATTOLICO THAILANDESE OSPITE AL MONASTERO

(Ali è il diminutivo del nome di una ragazza statunitense ospite al monastero tra gennaio e febbraio)

Un giorno il prete si presenta vestito di bianco e Luca pensa: "Beh, carino da parte sua vestirsi come noi, i residenti al monastero.  Infatti quegli abiti mi piacciono proprio.  Ho l'impressione di aver già visto quegli abiti ... Ma sono i MIEI abiti!"

Più tardi gli chiede: "Bello quel vestito.  Dove l'hai trovato?"  E lui: "Ah, stamattina avevo proprio bisogno di cambiarmi, ma non avevo nulla con me, così ho pregato la Madonna di farmi avere qualcosa da mettere, ho aperto l'armadio nella mia stanza [quella di Luca, ovviamente] e ho trovato questi abiti.  Belli, vero?  Li ho provati e mi stanno benissimo.  Così ho ringraziato il Signore: Alleluja!".  Luca solleva le braccia al cielo, alza le spalle e, con un'espressione che fa scoppiare dal ridere Ali, che pure non capisce quasi nulla, ripete: "Alleluja!".

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OPERAZIONE KIWI

A dicembre comincia un lavoro troppo a lungo rimandato per la straordinaria pigrizia della compagine laica/semilaica del Vihara: inizia l'operazione kiwi!

Il pergolato davanti l'ingresso principale è infatti coperto da tali piante che fruttificano in tardo autunno.  Perché tanta reticenza?  Sono trecento piante?  No, sono due, una femmina e una maschio (a proposito della loro fruttificazione, Ajahn Juthindaro nota che è segno che non hanno preso i precetti!).  Allora il pergolato misura un ettaro di superficie?  No, è al massimo di quattro metri per tre.

lista-dharma> "Non avete nessuna scusa!"

Beh, è che ad occhio e croce ci sono diecimila kiwi!  Sono grandi come palle da golf, ma lasciarli andare a male è un vero peccato.  Samanera Thanavaro (detto "Thanavaro II" o "Il Riscatto") rompe gli indugi e da il via all'operazione, che si conclude dopo una mezza dozzina di "spedizioni punitive" il 10 gennaio, a ritiro iniziato.  A dicembre tale Ida di Bari s(')offre di cuore per aiutarci a smaltire la prima raccolta proponendo di portar via con sé al suo ritorno a Bari tre scatoloni di kiwi per farne marmellata.  La proposta è accolta con tale entusiasmo che alla povera Ida, suo malgrado, è appioppato un quarto scatolone di palle da golf marroni e pelose.  Ugo contempla con evidente preoccupazione il ragguardevole schiacciamento delle sospensioni della sua Renault Kangoo.  A raccolta terminata abbiamo tre scatoloni in dispensa e i cestini per la frutta e la verdura in cucina che ci ricordano il retrotreno della macchina su cui è partita Ida.

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MARANAMPI DUKKHA

La mattina di lunedì 15 gennaio il sole splende e scalda la terra di un tepore primaverile in deciso contrasto con il freddo che ha gelato la brina sull'erba e le foglie secche durante la notte.  Poco prima del pasto delle undici, mi siedo sui gradini dell'ingresso principale rivolto a sud a godermi i raggi solari; d'inverno il sole è sufficientemente basso da mandare i suoi raggi sotto il porticato fino alla porta d'ingresso e in più il furgone, solitamente parcheggiato lì davanti, adesso non c'è.

Accarezzo per due minuti Dorje che poi si allontana.  Ritorna dopo breve tempo e noto che ha qualcosa in bocca.  Guardo attentamente e vedo che è un topo.  Dorje arriva a mezzo metro da me, depone il topo morto a terra, mi guarda e mi spiega il significato del suo gesto: "Miao!".  Raccolgo il topo, lo osservo sulla mia mano, gli passo un dito sul corpo ancora caldo mentre mi cresce una sensibile tristezza: i topi ho sempre gradito vederli vivi, piuttosto.  Mi avio verso il torrente scendendo la collina, a sinistra del sentiero ne vedo un'altro nascosto da cespugli di ginestra, mi avvio e trovo il cumulo delle mele che non sono state raccolte in tempo e che si sono rovinate sul terreno.  Vi depongo il topo e poi risalgo la collina per tornare a sedermi sugli stessi gradini di prima.  Dorje è ancora lì, la accarezzo e la prendo in braccio.  Arriva il furgone, ne scende Amara, mi porto sullo stesso lato del furgone dove è lei e, quando nota la mia presenza, mi rivolgo a Dorje, ancora sulle mie braccia, e le dico: "Dille che cosa hai fatto!".  Poi ad Amara: "Mi ha portato un topo morto."  Amara dà uno sguardo di disapprovazione a Dorje e le ricorda che in un monastero non si uccide nessun animale.  Concordiamo che al prossimo Uposatha anche Dorje dovrà prendere i precetti.

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ANCORA SU DUKKHA

Dopo un paio di giorni di sintomi di preavviso, il raffreddore si manifesta in tutta la sua prepotenza.  Non è però tanto forte da impedirmi di partecipare alle sedute comuni, mancare lo avverto piuttosto come sfruttare il raffreddore a pretesto per marcare visita [altra versione dei fatti: decido di trattarmi male pur di far bella figura davanti ai bhikkhu: "Ehi, sono nuovo, devono notarmi subito e pensare che sono il migliore!"].  Partecipo quindi lo stesso alle meditazioni e ai canti di gruppo.  La sera che il raffreddore è al culmine (sdraiarmi mi causa il mal di testa) apro gli occhi durante la puja e guardo la statua dorata brillare alla luce delle due candele che le sono poste innanzi nella stanza altrimenti buia.  Le tempie pulsano, le ghiandole presso le articolazioni della mandibola sono doloranti.  Lo sguardo rimane fisso su quello del Buddha Sakyamuni, colui che ha scoperto la Via che conduce alla cessazione della sofferenza e l'ha percorsa.  Continuo a sentire il malessere nella mia testa e a fissare la statua del Buddha.  Mi scopro disposto a tutto pur di far cessare questo stato di sofferenza, guardo la statua e penso: "Se tu fossi vivo, se tu potessi parlarmi, questo ti domanderei: puoi far cessare questo dolore, questa sofferenza, qui ed ora?  Puoi sentirmi lo stesso, anche 2500 anni dopo il tuo Parinibbana? Puoi esaudire questa mia ... "

Il mio pensiero ha un'attimo di sospensione.  «Preghiera», confesso a me stesso.  Sto pregando ad una statua del Buddha!  Io che ho ululato di gioia anni fa leggendo le sue parole: " ... le preghiere sono vana ripetizione ... ", " ... né i rituali, né le invocazioni, né le preghiere né la recitazione dei mantra possono salvare un uomo la cui mente è distratta ...".  Chiudo gli occhi e cerco di capire cos'è successo, cosa vuol dire tutto questo.

Provavo dolore, punto primo.  Non sopportavo il dolore e volevo liberarmene, secondo punto.  Non potendolo fare, mi sono appellato a qualcuno che considero più potente di me, che ritengo capace di farlo, per sé stesso e quindi, spero, per gli altri, per me.  Punto terzo.  Lo so, è tutto sbagliato, è tutto falso.  Lo so da un buon annetto, l'ho letto con approvazione più volte.  Eppure ci sono cascato lo stesso.  Perché, come mai, com'è possibile?

Perché saperlo non basta, caro mio, saperlo non basta.  Il dolore non lo si supera, non lo si accetta con mente serena, raccolta, non agitata né dalla paura né dall'avversione perché hai letto che il Buddha insegna che così bisogna fare.  Né, tanto meno, ce ne libera lui per mezzo dei suoi poteri miracolosi.  Bisogna essere pronti per farlo, bisogna addestrarsi al saperlo fare per quando il dolore arriverà, prima che arriva, quando stai ancora bene.  Se quando stai bene la mente è distratta perché hai tante cose più importanti, utili e belle da fare prima, allora lo sarà anche quando il dolore arriverà, e non saprai affrontarlo.  Perché non ti sei preparato ad affrontarlo fintanto che stavi bene.  E allora, in preda al panico e alla disperazione, ti inginocchi davanti ad un blocco di stagno dorato, accendi candele e incensi, ti prostri e preghi.  Questa è la storia dell'umanità, questo è il dramma dell'umanità.  Penso alle masse dei fedeli nei templi, nelle moschee, nelle chiese, nelle sinagoghe, negli ashram, nei vihara, a pregare perché il loro dolore finisca, perché l'afflizione termini, perché la malattia scompaia.  Il dolore nel mondo è enorme, e anche l'ignoranza è enorme.  Questa visione mi commuove, con il cuore gonfio di compassione e di tristezza penso: "È troppo tardi, adesso è troppo tardi per tutti, è troppo tardi".

 

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MUSICA - EMOTIVITÀ È DUKKHA

"Cittaviveka, Teachings from the silent mind", Amaravati publications, 1987, pag. 28.  Ajahn Sumedho.

Una notte eravamo seduti nel nostro monastero della foresta in Thailandia, in meditazione [anni 66-76], quando ho sentito una canzonetta americana che veramente odiavo quando ero laico.  Era strombazzata a tutto volume da uno di quei venditori di medicine che vanno in tutti i villaggi in grandi furgoni con altoparlanti che diffondono questo genere di musica per attirare gli abitanti del villaggio e indurli a comprare i loro intrugli.  Il vento soffiava nella direzione giusta e la canzone 'Tell Laura I love her' sembrava fosse cantata proprio nella sala di meditazione.  Non avevo sentito canzonette americane per così tanti anni che sentire questa canzone sdolcinata e sentimentale stava per farmi piangere!  E ho cominciato a comprendere l'enorme forza attrattiva emotiva di quel genere di musica.  Se non comprendi questo bene in fondo, ti afferra il cuore e ti ritrovi imprigionato nell'eccitazione e nell'emotività che genera.  Questo è l'effetto della musica quando non sei consapevole.

Ero nella sala di meditazione durante una puja serale.  E non ho nemmeno avuto bisogno dell'altoparlante del rivenditore di medicine (qui in realtà circola un furgone che vende frutta e verdura targato Napoli).  Ma, chissà con quale pretesto, la mia mente apre lo scrigno d'oro, avorio ed ebano che racchiude i più dolci carillon in cui si abbandonava, estatica e melanconica, nei tempi in cui vivevo da solo a Ferrara.  E la musica riprende a suonare.  Un'orchestra d'archi si insinua, dapprima sommessamente, nello spazio in cui prima risiedeva il silenzio, quindi acquista corpo, vigore, solennità e volume.  Si acquieta di nuovo per lasciare emergere una voce baritonale, che intona il suo canto doloroso.  È il "Miserere des Jésuites" di Marc Antoine Charpentier, un brano da temere, lo so, già gli occhi, seppur chiusi, si fanno lucidi e so che il peggio deve ancora venire, anzi, è appena dietro l'angolo.  Eppure lascio continuare la musica, ignoro gli allarmi e mi abbandono allo strazio che deve venire, abdicando volontariamente il mio raccoglimento e l'abbandono dei pensieri e delle emozioni al loro spontaneo estinguersi.  Lascio invece che si alimentino, lascio scarrocciare la nave verso gli scogli.  Riprende il baritono a voce più alta: «Miserere mei Deo, Secundum magnam misericordiæ tuæ ...», si affievolisce di nuovo, so che questa è l'ultima pausa prima dell'assalto finale.

Un accordo mite e acuto dei violini introduce il coro, che riprende lo stesso tema e la stessa melodia.  Ma il volume cresce inesorabilmente finché il coro si attesta sulla sillaba finale di «secundum magnam», per dare occasione al baritono di inserirsi, sulla vocale sospesa, con ancora lo stesso tema vibrato come un urlo di dolore, gonfiato dal resto degli archi, violoncelli e contrabbassi, che danno corpo alla disperazione dell'umanità.  È il trauma.  Non riuscendo a trattenere le lacrime, vorrei stendermi sul pavimento per nasconderle, mascherando l'emozione con una parvenza di eccessiva devozione.  Oppure potrei alzarmi e andarmene, nessuno mi farà domande a riguardo.  Il ricordo della melodia che prosegue nel frattempo nella mia mente si fa fumoso e incerto, tanto che il canto arriva presto ad estinguersi.  Momentaneamente salvato da anicca.  Imparata la lezione?  Ma neanche per idea: il carillon rimane aperto, esaurito un brano ne trova un'altro, il suo repertorio è vasto.  Segue un altro «Miserere», quello di Gregorio Allegri, lo «Stabat Mater» di Giovanbattista Pergolesi e il «Crucifixus» del Lotti.

Giovanbattista Pergolesi, come John Keats, gli bastarono ventisei anni per rendere vibrante la memoria del suo nome secoli dopo la sua morte, un caso da ricordare a quanti venderebbero l'anima al diavolo (chissà perché non ci riescono mai?) pur di avere la certezza di vivere un'età a tre cifre.  Come dice De Crescenzo: "bisognerebbe smettere di voler rendere la vita lunga, piuttosto bisognerebbe cercare di renderla larga".

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L'AUTENTICA ILLUMINAZIONE DI ANANAGARIKA ALESSANDRO

Assegnatomi il kuti (capanna "di meditazione", dicono) sorge la necessità di imparare la strada per raggiungerlo.  I primi giorni uso una lampada al neon portatile a batteria.  Dopo pochi usi ritengo di aver imparato alla perfezione il sentiero, meglio di una guida Cheyenne nelle praterie dell'Oklahoma, e quindi comincio a percorrere il sentiero nella notte dopo la puja serale "senza questo ridicolo trabiccolo moderno di lusso, tecnologico quanto inutile, di cui il Buddha Sakyamuni ha sempre fatto a meno".  Finché una notte succede che non c'è né luna né nuvole a diffondere il chiarore notturno dei paesi circostanti.  Il cielo è un manto di velluto nero costellato di gemme, diamanti bianchi, rubini rossi e zaffiri blu.  Una bellezza maestosa, che dalla tentacolare e sfavillante metropoli romana non si ha mai l'occasione di ammirare.  Ma che rende il terreno circostante buio come una miniera di carbone abbandonata!  Testardo tiro dritto, scendendo il ripido pendio che dall'edificio principale conduce verso l'avvallamento dove scorre il ruscello, il punto più basso del terreno del monastero.  Scorgo alla mia sinistra la striscia bianca del cankamma (sentiero per camminare in meditazione) più vicino; "Bene - penso - sto andando nella direzione giusta".  Dieci secondi dopo un cespuglio di ginestra più alto di me mi accoglie gioiosamente tra le sue braccia.  "Non sono venuto al vihara per infrattarmi", penso, mi scanso di un paio di metri e provo di nuovo. I miei piedi perdono presa con il terreno rivelando lo spigolo di un fosso.  Balzo indietro ma cado per terra; il mio deretano m'informa che l'erba è bagnata.  Faccio un altro paio di tentativi e scopro un cespuglio di pungitopo, un rovo e quindi, felice di rivedermi, la ginestra.  Guardo il cankamma e mi domando se qualcuno l'ha spostato.  Mi volto a guardare l'edificio principale del vihara in alto sulla collina: tutte le finestre sono buie, troppo tardi per tornarvi a chiedere una torcia.  Attendo un po' nell'oscurità per rilassarmi dal nervosismo crescente, quindi torno a scrutare il vuoto oscuro dinanzi a me.  E, meraviglia!  Un corteo celeste di déi nei loro maestosi carri regali discende dall'alto delle tredici sfere dei mondi divini circondato da spiriti danzanti e intonanti inni melodiosi.  Una pioggia di petali, rugiada celeste e gemme dei loro mondi trascendentali scende lieve davanti a me e si deposita sul suolo rivelando un percorso nel limpido bagliore che emana la processione sfavillante dei brahma-loka deva.  O forse sono solo i miei occhi che si sono adattati al buio?

Fatto sta che il sentiero adesso lo intravedo, proprio dinanzi a me, a destra del cespuglio di ginestra.  Comincio a scendere, più volte scivolo sulle foglie secche, inciampo sui sassi sporgenti e mi impiglio sui rami di rovo.  Cinque minuti più tardi arrivo presso i tre kuti più remoti, gli ultimi costruiti.  Io sto nel secondo, il più nascosto e difficile da raggiungere, circondato da querce più fitte che non intorno agli altri due e che, pure di giorno, non si vede dal sentiero principale.  Mi piace proprio per questo, ma in questa circostanza queste doti si rivelano un difetto.  Vado più volte avanti e indietro sul sentiero più largo per trovare una delle due tracce create inizialmente dai tassi e dai ghiri che frequentano l'area che conducono al kuti ove sono diretto.  Dopo molti errori, infrattamenti e minuti vi arrivo, tolgo i sandali, salgo i tre gradini, entro, mi svesto e mi infilo sotto le coperte del letto.  La mia mente è fissa su un pensiero: "Mai più!".  Il giorno dopo mi rivede munito di lampada al neon, ma la mia antipatia per tale oggetto ad alta tecnologia ed innovazione tecnica resta.  Mi domando cosa possa andare bene ad una mente retrogada come la mia: "Il Buddha cosa avrebbe usato?"  La risposta mi giunge alla puja seguente, frutto della mia immersione nel secondo jhana (per chi ci crede).  Da un po' di tempo sono diventato, per tacito consenso, il candeliere ufficiale del vihara, mansione precedentemente ricoperta da Amara.  I candelabri sull'altare necessitano di due nuove candele.  Le prendo, mi avvicino all'altare e mi viene l'idea di recuperare i due mozziconi rimasti invece di spiaccicarli sotto le due candele nuove.  Poi, invece di chiedere un candelabro per mio uso personale, chiedo che la prossima tazza o bicchiere rotti in cucina mi siano lasciati da parte.  La mattina dopo Ugo mi informa che proprio quel giorno Letizia ha rotto una tazza (proprio una di quelle bianche che mi piacciono, accidenti) che diventa così il mio primo candelabro da perfetto mendicante.  Attendo più di una settimana per decidermi a smussarne i bordi taglienti, dopo essermici ferito.  Vi si aggiungerà poi un bicchiere incrinato che sarà poi sostituito, causa sua rottura definitiva, da una tazza di coccio sbeccata rinvenuta nella stalla abbandonata, tra i vasi per fiori vuoti ammucchiati lì dentro.  La mia caccia spietata ai mozziconi di candela comincia ad essere notata.  Con la cera rimasta dei mozziconi esauriti, opportunamente conservata in un barattolo, decido di realizzare il mio primo candelone artigianale.  Dai secchi per la raccolta differenziata dei rifiuti riciclo un barattolo di vetro ed uno spago da imballare rimasto attaccato ad un pacco postale.  Da un cassetto della cucina prendo una grattugia a fori grandi dal manico di plastica rotto.  Munito di un giornale, vado nel mio kuti, gratto i pezzi di cera e ne compatto una manciata attorno ad uno spago di poco più di dieci centimetri.  Tengo la protocandela in piedi al centro del vaso, getto altra cera grattugiata tutt'intorno, la presso con le dita ed ecco pronta, dopo circa un'ora, la mia prima bhikkhu-candela.  Fatta interamente di materiali di scarto, com'erano gli abiti dei primi discepoli del Sublime.  La osservo deliziato.  La mia fama di candeliere cresce.  Nello stesso giorno ricevo il dono da Ajahn Juthindaro di una lampada portatile a candela in metallo con quattro finestre di vetro, da Maechee Amara quattro mozziconi di candela e da Anagarika Luca una scatola di cartone con il frutto della sua questua al primo piano dell'edificio principale, dove risiedono i monaci.  Dentro, una collezione di ben ventiquattro mozziconi di candela, di tutte le dimensioni e colori.  I migliori regali che abbia ricevuto in tanti anni della mia vita, e senz'altro anche i meno costosi!

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VITA DA KUTI

Assegnatomi il kuti, vi entro e mi guardo intorno, cercando di capire cosa comporta l'ambientarsi in un tale spazio.  Depongo la mia borsa sul pavimento e penso: «Ah, caaasa!» - Uops! E io vorrei deiventare Anagarika, un "senza casa"?

Guardo il letto, alto quasi quindici centimetri, di legno con due tappetini di gommapiuma sopra, di quelli usati nelle palestre.  «Il mio spirito ascetico ha sopportato di peggio» penso, orgoglioso del mio masochismo.  Passo ad esaminare le due finestre.  Quella più piccola, rivolta a sud, è di tipo "vasin", si apre a "V" verso l'alto.  L'altra, sulla parete opposta, è composta di due pannelli che dovrebbero scorrere, ma che che stando sulla stessa rotaia non si aprono che di un centimetro e mezzo.  Davanti, un cavo elettrico è fissato in alto su due viti e un panno vi è piegato sopra e chiuso da diverse spille da balia perché vi possa scorrere.  È la tenda.  La chiudo e vedo che nelle sue pieghe vi sono numerosi bozzoli di uova di ragno, con mamma ragno annessa.  Comincio a staccarli delicatamente, ad uno ad uno, e a depositarli fuori tra le foglie secche.  Tolti dodici bozzoli dalla parte frontale della tenda, ne esamino il retro per scoprirne ancora di più, con tanto di tarantola di guardia misurante tre centimetri dall'estremità delle zampe anteriori a quelle delle zampe posteriori.  Accomodo garbatamente l'ospite fuori del kuti.

Una mattina decido, con grande spirito di dedizione al lavoro pesante, di rifarmi il letto.  Tolgo le coperte e ... Ha! Che ci fai tu qui?

Tarantola> "Brrr, rimetti giù le coperte!"  Prelevo nuovamente l'ospite e lo getto fuori del kuti.

Tarantola> "Prepotente! C'ero prima io!"

Altra mattina, altro spirito di costruttivo impegno pro-ordine, alzo le coperte del letto e ... "Ancora tu? Ma allora sei testarda!"

Tarantola> "Brrr, che freddo, lascia stare le coperte!"  Prendo un'altra volta l'ospite e lo schiaffo fuori del mio kuti.

Tarantola> "Egoista!"

Apro la finestra e trovo un'altra tarantola schiacciata contro lo stipite.  Altra mattina, altro sforzo erculeo per rendere decente il kuti, alzo le coperte e ... "Nooo, di nuovo! Questa volta ..."

Tarantola> "Eddai, lasciami stare, si sta bene qui!"

L'ospite finisce dentro un barattolo, quando mi avvio verso l'edificio principale per la puja lo porto con me e, poco prima di arrivare a destinazione, lo depongo per terra, a debita distanza dal kuti.

Da allora le visite, da quasi giornaliere, sono diventate mensili.  Uno degli ultimi avventori si era maldestramente spinto fin sotto le lenzuola, rimanendo schiacciato durante la notte.  Una bolla rossa prurigginosa su una gamba è stata forse opera sua.

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VACUITÀ IN CUCINA, ovvero "Il koan è servito"

Dopo il lavaggio, asciugo un piatto con un panno da cucina. Leggo il timbro sul retro: "C.A.R. Made in Italy / Dipinto a mano / Dishwasher proof". Lo giro.

È bianco.

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PERCHÉ NON SI DOVREBBE MAI MANGIARE IN UN VIHARA

Un giorno mi accingo a cucinare il pranzo del giorno quando una persona, per proteggere la cui identità chiamerò con lo pseudonimo di Aspra, apre la porta esterna della cucina e mi porge una busta dicendo: "Se tu puoi, fare questo, è meglio finire".  Osservo la busta, è un preparato per budino al cioccolato.  Data di scadenza: 1996.  Guardo Aspra.  Guardo la busta.  Guardo i fornelli.  Guardo il secchio della spazzatura.  Guardo di nuovo Aspra.

lista-dharma> "E allora? Cos'hai fatto?"

Beh, siamo ancora tutti vivi!  :-)

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MA CHE SIAMO IMPAZZITI? O SIAMO DIVENTATI MAHAYANA?

Un giorno la meditazione è piuttosto serena, calma e centrata.  Mi accorgo che un tale stato è raro e prezioso e cerco di abbandonarmici totalmente, quieto e vigile, sveglio e lasciando perdere ogni pensiero.  Bellissimo, mai stato così a mio agio fino ad ora.  La testa, il viso si riscaldano, ne avverto le varie parti caratterizzate dal tepore che pulsa lentamente, la fronte, gli occhi, il naso, le labbra e ... e ... Noooo!  Non è possibile, cos'è questo?  Non ci credo, sembra proprio ... Maddai, l'ho sempre relegato a rango di superstizione dettata dall'emotività!  La fronte: poco sopra il centro delle arcate sopracigliari avverto netta la sensazione di un pulsare dall'interno, il tepore è concentrato in un'area piccola quanto la superficie di un dito.  Maremma, il terzo occhio!  Calma, calma, non siamo mica degli eccentrici tipo i Mahayana, siamo gente concreta, noi altri Theravadin, eccheccaspita!  C'è senz'altro una spiegazione scientifica, è un puro fatto circolatorio, è solo un'irrorazione sanguigna particolarmente intensa, tutto qui.  Ma perché l'avverto solo ora?  In che relazione è con il mio stato del momento?  Cosa vuol dire "terzo occhio" oltre alla collocazione fisionomica di questo "punto caldo"?  Per lo meno, vuol dire essersene accorti, l'averlo notato, aver avuto la sensibilità di avvertirlo.  Un sentire più fine, un "vedere" più in profondità rispetto alla norma, un vedere con un «occhio» nuovo.  Manteniamo fede al proposito iniziale, non filosofeggiamoci sopra, tanto meno sbizzarriamo la fantasia su questo avvenimento.  Sentiamolo e basta.  È bello, questo basta, qualsiasi cosa sia.  E sta già svanendo ...

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DEDICATO A PAM

"Cittaviveka, Teachings from the silent mind", Amaravati publications, 1987, pagg. 31-32. Ajahn Sumedho.

"La pratica del 'lasciar andare' è molto efficace per le menti ossessionate dal pensiero costrittivo: semplifica la tua pratica di meditazione a due sole parole - 'lasciar andare' - piuttosto che cercare di sviluppare questa pratica e poi di sviluppare quella; e di ottenere questo e di spostarsi poi in quello, e di capire questo, e leggere i Sutta, e studiare l'Abhidhamma ... e poi imparare il Pali e il Sanscrito ... e poi il Madhyamika e il Prajña Paramita ... ricevere l'ordinazione nell'Hinayana, Mahayana, Vajrayana ... scrivere libri [come sto facendo io, NdT] e diventare un'autorità sul Buddhismo riconosciuta a livello mondiale.  Invece di diventare l'esperto mondiale sul Buddhismo e di essere invitati a grandi Conferenze Buddhiste Internazionali, solo 'lascia andare, lascia andare, lascia andare'.  Non ho fatto altro per circa due anni - ogni volta che cercavo di capire o di eviscerare qualcosa, mi dicevo 'lascia andare, lascia andare', fino a che il desiderio svaniva.  E così sto cercando di rendervi quanto più facile possibile il liberarvi dall'essere presi in quantità incredibili di sofferenza.  Non c'è nulla di più doloroso del dover partecipare a conferenze buddhiste internazionali!  Alcuni di voi potrebbero desiderare di diventare il Buddha della nuova era, Maitreya, irradiante amore in tutto il mondo, ma vi suggerisco invece di essere un lombrico, lasciando andare il desiderio di irradiare amore sul mondo.  Essere solamente un lombrico che sa due sole parole - 'lascia andare, lascia andare'.  Vedete, il nostro è il Veicolo Inferiore, l'Hinayana, e così abbiamo solamente queste pratiche semplici, piagate dalla povertà!"

Oaken Holt Buddhist Centre, presso Oxford, aprile 1979

ib., pag. 56

Cantare - cos'è questo? E` una cosa che ha il suo valore o è forse inutile?
Quando mai hai dei dubbi a riguardo - di farlo o di non farlo - cosa succede, lo sai? Devi cercare ragioni e giustificazioni, devi convincerti? Oppure prendi partito e dici "non lo faccio" oppure "lo faccio"? Alcune persone non fanno che dire: "Ah - cantare mi ricorda tutte quelle cose orribili che i cattolici mi facevano - devozione cieca e rituali, riti e cerimonie". Questo è prendere partito - puoi partecipare consapevolmente ad una cerimonia o la rifiuti per partito preso? Puoi concederti ad una tradizione, o piuttosto dici: "Andrò avanti fino ad un certo punto, poi mi fermerò"?
Come nella vita monastica - puoi concederti alla vita monastica oppure ci saranno delle riserve - "Andrò avanti fino ad un certo punto, poi non so. Nella meditazione andrò avanto fino ad un certo punto e poi 'chissà'"? "Voglio la vita alle mie condizioni e sempre con i ponti pronti così che possa tornare indietro di corsa e attraversarli se non mi piace quello che c'è davanti a me".
Questo naturalmente è samsâra, un errore incosciente.
Nella pratica di consapevolezza c'è sempre il momento presente, il coinvolgimento completo, la resa, l'accettazione totale - e questa è la liberazione. Con l'altra cosa, con il dubbio, la razionalizzazione, giustificazioni e riserve, ci saranno sempre una miriade di complessità che ci spingeranno di quà e di là e che ci confonderanno.
Allora, vi offro questo su cui riflettere stasera.

Hampstead Vihara, maggio 1978

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Anagarika Alessandro

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Du liefst zu rasch			Corresti troppo veloce:
Jetzt erst, wo du müde bist solo ora, che sei stanco,
holt dein Glück dich ein. ti raggiunge la tua felicità

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