Traduzione dell'originale sito in: http://sdhammika.blogspot.com/2011/03/comfort-or-challenge-i.html
In linea dal 18 marzo 2011.  Ultima modifica: 20 marzo 2011

Giovedì 10 marzo 2011

Consolazione o sfida - I di III

Il discorso di indirizzo dei lavori del Prof. Richard Gombrich1 alla Conferenza Internazionale sulla Disseminazione del Buddhismo Theravada nel 21° secolo2 tenutosi a Bangkok, sett /ott 2010.  Riprodotto con il permesso dell'autore.

Sono veramente grato al Ven. Sugandho per avermi fatto l'onore d'invitarmi a dare questo discorso di indirizzo dei lavori.  Spero sinceramente di non fare in modo che debba pentirsi di questa sua cortesia.
Alcuni anni fa due sociologi americani della religione, Glock e Stark, hanno scritto un libro sulla cristianità e l'America contemporanea che è stato molto ben accolto e l'hanno chiamato “Consolare o sfidare”.  Per poter vendere agli altri la loro religione le chiese cristiane negli Stati Uniti hanno dovuto concentrarsi su quello che la gente voleva dalla religione e decidersi fino a che punto erano disposti a darglielo.  Quello che la gente vuole di più è la consolazione.  La vita è dura, il mondo appare spesso ingiusto e la morte è una prospettiva terrificante, a meno di non essere convinti che sia la porta verso qualcosa di meglio della vita sulla terra.  Così come i bambini credono che i loro genitori abbiano la facoltà di dargli quello che vogliono e di spazzare via le loro angosce, la gente vuole credere, e per questo è molto facilmente persuasa, che l'universo funzioni allo stesso modo: che ci sia qualcuno che comanda, che fondamentalmente bada a noi e fa in modo che alla fine tutto si sistemi.
Tutte le religioni del mondo tranne il buddhismo offrono una tale visione consolatoria, e anche alcune delle principali forme di buddhismo, come la Jodo Shinshu (Buddhismo della Terra Pura), lo fanno.  Le religioni differiscono su quanta buona condotta il Grande Genitore del Cielo richiede in cambio del conforto e della consolazione che può elargire.  (Dico “lui” perché il Grande Genitore è pensato più frequentemente come un padre che come una madre; ma io intendo un genitore tanto dell'uno come dell'altro sesso.) In alcune religioni tutto quello che si chiede ai bambini – all'umanità cioè – è che ripongano la loro fiducia nel Grande Genitore e che si rivolgano a lui per ricevere aiuto; al solo riconoscere la sua onnipotenza è pronto a perdonarli per qualsiasi cosa.  In altre religioni, se i bambini fanno i cattivi, il Genitore cerca di far si che siano puniti, prima di mostrarsi mosso a pietà.  In tali casi la punizione peggiore è spesso riservata a quelli che non credono nel Grande Genitore e per questo non meritano di beneficiare della sua bontà.
Le istituzioni religiose, quindi, si occupano principalmente di confortare e consolare e il loro personale considera quest'attività il loro primo dovere.  Ma se pensiamo ai fondatori delle religioni e ai grandi riformatori, [vediamo] che hanno soprattutto sentito il bisogno di proporre una sfida al loro pubblico, di criticare lo status quo e di sollecitare la gente perché migliorasse la propria esistenza e quella di chi gli stava intorno.  Gesù, ad esempio, predicava il perdono, ma sapeva essere spietato contro il peccato; e il Sermone della Montagna dimostra quanto fosse contrario ai valori da cui è governato il mondo, e promise che in futuro “gli ultimi saranno i primi e i primi saranno ultimi”.  Per gran parte di noi questo non è un messaggio che ci fa comodo, e non era stato pensato per esserlo.
Le religioni hanno quindi di fronte il problema che in gran misura la ragione per cui esistono è in stridente contrasto con quello che la maggior parte della gente si aspetta da loro.  I loro fondatori e la maggior parte dei loro santi avevano il fuoco dentro: volevano che la gente si risvegliasse e che diventasse cosciente di quanto era diventata sufficiente e autocompiacente, quanto indifferente al male e pigra sul fare il bene, che dal punto di vista morale la maggior parte di loro era diventata completamente insensibile, diventando poco più di bufali addormentati in una pozza di fango.
Farsi latore di un tale messaggio è spesso pericoloso.  Nella maggior parte dei paesi e dei periodi storici quelli che si mettono a castigare chi detiene il potere hanno corso il rischio di essere puniti in modo grave, persino di essere messi a morte.  I loro seguaci li chiamano quindi martiri, “testimoni” della verità.  Mi considero fortunato del fatto che per quanto a voi, il mio pubblico, quello che sto per dire oggi debba piacere o no, è improbabile che io sia martirizzato.  Da parte mia è necessario quindi solo un po' di coraggio per dirvi quelle che ai miei occhi sono verità sgradevoli.  E per quanto possa risultarvi offensivo, credo che mi riconoscerete per lo meno il merito d'esser stato sincero, perché parlo con convinzione appassionata.  All'inizio del mio libro di recente pubblicazione “Che cosa ha insegnato il Buddha” ho scritto che secondo me le idee del Buddha “dovrebbero far parte dell'istruzione di tutti i bambini, in tutto il mondo, e che questo contribuirebbe a rendere il mondo un luogo più civilizzato, più gentile e più intelligente.”  E io sono, aggiungo dopo, costantemente inorridito dal fallimento delle istituzioni buddhiste nel comprendere il messaggio del Buddha, nell'insegnarlo e nel viverlo in pratica.  Questo fallimento, questo fallimento tragico e colpevole, deve determinare l'agenda di questa conferenza da lungo attesa.
Nel suo scritto a elucidazione del tema di fondo della conferenza, il Ven. Sugandho ha chiesto perché la disseminazione del buddhismo theravada non riscuote più il successo di una volta.  Dopo tutto, il buddhismo theravada è il guardiano della tradizione più antica e più pura del messaggio del Buddha; e io credo che la maggior parte di noi qui presenti oggi consideri il valore morale e il fulgore intellettuale di quel messaggio tra i più elevati nell'intera storia dell'umanità.  E allora, se abbiamo un prodotto così buono, perché non riusciamo a venderlo?
Vi propongo delle risposte a questa domanda, in tutto il dettaglio che mi riuscirà di esporre nel tempo disponibile.  E penso che per lo meno dobbiate concordare che se non c'è nulla che non va nel messaggio, allora si deve supporre che ci sia qualcosa che non va nei messaggeri.

Tanto per iniziare, permettetemi di tornare sulla consolazione e sulla sfida.  Come ha scritto il Ven Sugandho nella presentazione della conferenza, i missionari theravada ovviamente preferiscono apportare consolazione piuttosto che lanciare sfide.  Piuttosto che insegnare il buddhismo alla popolazione locale del paese che li ospita, si danno alla gestione di centri culturali per gl'immigrati buddhisti provenienti dai loro stessi paesi d'origine, centri che infatti esercitano le loro attività soprattutto in lingua singalese, birmana, thai ecc., non nella lingua del paese dove le loro missioni si trovano.  Darsi alla gestione di un tale centro non è in se un'attività indegna: nel mondo moderno la maggior parte dei paesi considera la presenza di legati e servizi consolari della cultura parte delle loro missioni diplomatiche.  Ma se questa è l'attività principale e centrale della missione, ci si dimostra una debolezza di fondo estremamente seria del buddhismo theravada che si trova oggi nel mondo: il suo nazionalismo parrocchiale.  È un oltraggio constatare come la grande maggioranza dei buddhisti theravada, che siano monaci o laici, considerino solamente i buddhisti della loro stessa nazionalità essere veri buddhisti; e non importa che cosa dicano in pubblico, questo è quello che veramente la maggior parte di loro pensa.
È perfettamente naturale e indiscutibile che la gente si senta scaldare il cuore nei confronti della propria famiglia, e al di la di questa nei confronti di quelli con i quali sentono di avere una certa affinità per il condividere la stessa lingua, tradizioni e vicissitudini.  Ma non c'è una parola negl'insegnamenti del Signore Buddha – o, a riguardo, neanche in quelli di Gesù Cristo o del Profeta Maometto – che possa giustificare il trattare qualcuno meno bene di un'altro per il semplice fatto che è diverso da noi o che ci sono in qualche senso estranei.  Il buddhismo, il cristianesimo e l'islam sono dette religioni universali proprio perché sono per tutti, senza distinzioni.  Tutte le grandi tradizioni religiose insegnano che la gente dovrebbe amarsi l'un l'altro, essere gentili e compassionevoli.  Con questo intendono dire che si dovrebbe amare tutti, non solo quelli che sono facili da amare.  Amare qualcuno che è sempre gentile con te non è più di quanto fanno la maggior parte degli animali per istinto.  L'amore diventa un fatto etico quando è diretto ai nostri nemici, o ad altri che è difficile amare.
Ma come si comportano in realtà i buddhisti theravada? Lasciatemi cominciare con un esempio famigerato e indiscutibile: il loro atteggiamento verso i buddhisti mahayana.  (So che le cose potrebbero non essere migliori nell'altro verso, ma non è questo che m'interessa: adesso sto parlando dei theravada.) Ho compiuto uno studio approfondito tra i buddhisti singalesi, e in particolar modo tra i membri del Sangha singalese, dal più alto al più basso di rango.  Posso dire fiducioso che quasi tutti i buddhisti singalesi non considerano i monaci e le monache mahayana autentici buddhisti perché non proibiscono l'assunzione di cibi solidi dopo mezzogiorno.
Non ricevendo un'appropriato orientamento dal Sangha, ai laici potrebbero essere perdonati i loro pregiudizi.  Ma almeno il Sangha dovrebbe sapere che la necessità dell'amore universale va al di là dell'insegnare come fare metta bhavana.  Dovrebbero anche sapere che il Buddha dichiarò, nella sua saggezza, che ci sono tre legami (in Pali: tini samyojanani) che ci legano al samsara e che sono ostacoli al progresso spirituale; e il secondo di questi è l'aderenza al rituale.  In pali è chiamato silabbata-paramasa.  Per dare un sermone adeguato su questo argomento d'importanza vitale ci vorrebbe troppo tempo, ma il punto è così cruciale per la mia tesi che ne devo dire di più.
Il Buddha aveva sostenuto che il valore etico sta nella sola intenzione.  L'individuo è autonomo e il giudice ultimo è la sua coscienza.  La recitazione di parole, persino le parole dei cinque precetti, è inutile e vana a meno che non si stia coscienziosamente aderendo al loro significato.  Ma invece l'obiettivo del rito è il fare, non il coltivare l'intenzione.  E quindi il rito non può avere alcun valore morale o spirituale.  Vi prego di tenere questo in mente.
Il Buddha spesso dava nuovi significati a vecchi termini.  Prese la parola brahmanica per rituale, karman in sanscrito, e la usò per indicare l'intenzione etica.  Questa operazione da sola rovesciò l'etica legata alle caste, perché l'intenzione di un brahmano [per il buddhismo] non è plausibile che sia dichiarata dal punto di vista etico di una qualità completamente diversa dall'intenzione di un fuoricasta: l'intenzione può solo essere virtuosa o malvagia.
L'aver sostituito il Buddha l'azione rituale con l'intenzione etica è il fondamento, la pietra su cui posa il suo insegnamento visto come un sistema di idee.  E non in minor grado è il fondamento del successo storico del Buddhismo.  Essendo l'intenzione la stessa in tutti gli esseri umani, l'etica buddhista vale nello stesso identico modo per tutte le società.  Ad esempio, il terzo precetto, non darsi ad un'erronea condotta sessuale, è universale, ma la sua applicazione varia, perché i costumi delle varie società sono diversi: per esempio, alcune società ammettono la poligamia, alcune la poliandria e alcune nessuna delle due.  Le differenze nei costumi locali non erano quindi ostacoli alla diffusione del buddhismo.  Come ho scritto: “Essendo il buddhismo vincolato né alla comunità né al luogo, né al tempio né alla terra, ma risedendo nel cuore dei suoi aderenti, era facile da trasportare.” E così il buddhismo poté andare ovunque andavano gli uomini e mettere radici ovunque prendessero dimora.  Ma quello che può diffondersi è il buddhismo, il buddhismo del Buddha, che ha a cuore solamente il bene e il male morale e che li misura secondo l'intenzione.  Il buddhismo che misura le azioni attraverso il rito e i costumi non può mai diffondersi in nessun posto: è come il brahmanesimo che il Buddha criticava, che non non è mai né mai sarà adottato da qualsiasi società oltre quella in cui ha mosso i primi passi.
Miei venerabili amici, questo è il cuore e la sostanza del mio messaggio oggi.  Vi supplico di rinunciare all'ossessione per il rito e il costume, di seguire l'insegnamento del Buddha sull'intenzione etica e quindi di portare il suo messaggio al mondo.
Stavo dicendo che a malapena un qualsiasi buddhista singalese è disposto a considerare i buddhisti mahayana correligionari, per via del fatto che il Sangha mahayana permette di mangiare cibo dopo mezzogiorno.  Naturalmente, il Sangha mahayana ordinato nella tradizione cinese è altrettanto sdegnoso nei confronti dei loro fratelli theravada, perché considerano obbligatorio per un autentico buddhista essere vegetariano; ma pochi singalesi lo sanno.  In ogni caso non m'interessano tanto le diatribe botta-e-risposta di questo tipo, quanto piuttosto i veri ed enormi danni che questi atteggiamenti causano al buddhismo.  L'istituzione buddhista singalese è così poco pronta a riconoscere la validità del buddhismo mahayana che negli ultimi anni '50, quando i cinesi hanno invaso il Tibet, ucciso molti monaci e saccheggiato numerosi monasteri, e quando il Dalai Lama dovete fuggire, il governo dello Sri Lanka si rifiutò di unirsi al coro mondiale di condanna.  Quel governo sedicente “buddhista” rifiuta ancora oggi di riconoscere il Dalai Lama come un grande leader spirituale, che non è mai stato invitato a visitare il paese.  Cosa può pensare un estraneo che stia tentando di misurare il valore del buddhismo di un tale vergognoso trattamento della persona che il mondo considera il più grande buddhista vivente?
Ma ipotizziamo, solamente ai fini del dibattito, che il buddhismo mahayana non sia vero buddhismo e che non vogliamo avere nulla a che fare con monaci o monache che, qualsiasi sia la loro moralità o spiritualità, siano tanto indegni da osare di mangiare dopo mezzogiorno.  E allora portiamo il nostro sguardo dallo Sri Lanka ad un'altra delle residenze della tradizione theravada, il Myanmar.  Dubito che ci sia una persona in questa sala che non riesca ad indovinare quello che sto per dire.  Negli ultimi anni l'intero mondo, nonostante i frenetici tentativi di censura del governo del Myanmar, ha potuto essere testimone, per televisione, di come monaci che stavano esprimendo pacificamente il loro disaccordo con la crudeltà e la disumanità della politica del governo siano stati assassinati e torturati.  Naturalmente hanno potuto vedere solo una minuscola parte delle atrocità commesse, ma anche il poco che abbiamo potuto vedere dev'essere stato abbastanza per convincere un qualsiasi sincero buddhista del completo e crudele disprezzo che il governo mostra nei confronti tanto dei diritti umani in generale, quanto dei rappresentanti viventi del buddhismo in particolare.  E cosa hanno fatto in proposito gli altri governi che dichiarano di sostenere il buddhismo theravada? Nulla: neppure una protesta diplomatica.  D'accordo, sono politici, potreste dire, e non ci si aspetta gran che da loro in termini di condotta etica.  Ma che dire delle guide del Sangha? Ci sono stati alcuni individui coraggiosi, lo so, che hanno fatto uno sforzo silenzioso per alleviare un po' le sofferenze causate dal governo del Myanmar.  Alcune organizzazioni Buddhiste in Thailandia hanno espresso pubblicamente la loro disapprovazione per la tortura e l'assassinio di monaci.  Ma in tutti i paesi buddhisti theravada, a meno che non sia enormemente in errore, la gerarchia ha chiuso un occhio, senza mostrare più interesse che se avesse il governo del Myanmar appena schiacciato qualche zanzara.
Mi spiace dirlo, ma una delle cose che attrae di più la gente verso una religione è quando questa genera persone capaci di parlare con franchezza contro la crudeltà e l'ingiustizia.  Dove sono i leader theravada paragonabili al Dalai Lama e a Thich Nhat Hanh? I veri leader religiosi non hanno paura di sollevare controversie.  Come ho detto, devono spesso sollevare delle sfide.  Tra i leader del Sangha theravada odierno persino il dibattito, figuriamoci le sfide, sembra essere tabu.  Preferiscono la comodità dell'auto-congratulazione senza fine; preferiscono condurre il mondo al suono di una retorica eterea, proponendo risoluzioni sulla pace nel mondo che non hanno mai portato un solo soldato ad abbassare le armi o persuaso un solo politico ad amare il suo vicino.
So che alcuni probabilmente avranno una risposta pronta alla mia obiezione che le gerarchie buddhiste non hanno fatto sentire la loro protesta contro la persecuzione del buddhismo, persino [contro] l'assassinio di monaci, da parte di governi stranieri.  Quella risposta è che il Sangha non deve immischiarsi con la politica.  Prendiamo in considerazione questa opinione.

Fine parte I

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Note
  1. Professore all' Università di Oxford, già presidente della Pali Text Society torna all'articolo
  2. Vedasi http://atbu.org/, The Association of Theravāda Buddhist Universities torna all'articolo

I diritti d'autore sono detenuti dall'Autore dell'originale.
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